lunedì 27 dicembre 2010

"Hereafter" di Clint Eastwood


Ho visto Hereafter allo scorso festival di Torino (26 novembre-4 dicembre). Con un ritardo di quasi un mese, che per un blogger corrisponde all’incirca a qualche anno luce, vi posto qualche riga a riguardo. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 5 gennaio ed è sicuramente l’appuntamento cinematografico da non perdere a cavallo tra le festività. Per parlare brevemente dell’ultima fatica di Clint Eastwood, non si può che partire dalla componente emotiva. L’opera dell’ottantenne regista statunitense, senza dubbio uno dei cineasti più significativi dei nostri tempi, è in grado di sprigionare una energia emozionale come di rado il cinema sa fare. E la cosa ancor più interessante è che il buon Clint ottiene il risultato – come del resto ci ha ormai abituato da almeno un paio di decenni – con uno stile asciutto ed essenziale, che fa della sottrazione una scelta linguistica improrogabile. Morale. 
Alcuni storceranno il naso per il modo in cui viene trattato il tema della morte (il convincente Matt Damon, uno dei protagonisti, è un sensitivo capace di mettere in contatto il mondo dei vivi con i morti a loro cari) e per il finale ben poco eastwoodiano. Eppure il film proprio nell’escamotage narrativo legato alla natura soprannaturale del personaggio interpretato da Damon trova una forza straordinaria, riuscendo con grazia a riflettere sulla morte e soprattutto sul rapporto con essa di coloro che restano. Scritto con maestria da uno dei migliori sceneggiatori in circolazione, il Peter Morgan di The Queen e Frost/Nixon che a Torino si è presentato con un’altra grande sceneggiatura (l’ottimo I due presidenti di Richard Loncraine, che ricostruisce i rapporti politici tra Clinton e Blair), Hereafter evita ogni tipo di retorica e molte situazioni che in mano ad altri registi o sceneggiatori avrebbero potuto sfociare nel melenso, quando non nel ridicolo, qui raggiungono potenti vette di liricità. Accolto in modo sostanzialmente freddo dalla critica americana, Hereafter forse non è il miglior film di Eastwood. Il più poetico, con ogni probabilità.



domenica 26 dicembre 2010

Due parole sulla scena finale di Magnolia per augurarvi buone feste


Jim e Claudia, due dei numerosi personaggi che abitano il mondo di Magnolia, si sono trovati da poco. Lei ha un passato travagliato che le condiziona pesantemente il presente. Lui è un poliziotto sensibile, introspettivo e con un matrimonio alle spalle che non ha funzionato. Si incontrano per caso. 
La paura di mettersi in gioco innamorandosi porta Claudia a scappare dal ristorante in cui si sono dati il loro primo appuntamento. La frase che dice a Jim prima di andarsene è particolarmente significativa ed è ripresa dal verso di apertura della canzone di Aimee Mann Deathly: "Ora che ci siamo incontrati, hai nulla in contrario se non ci vediamo mai più?". Alla fine del film Jim deciderà di andare a parlare con Claudia. E questo è il modo poetico con cui Paul Thomas Anderson conclude la traiettoria narrativa dei due e al contempo il film tutto.


Forse per Claudia e Jim comincerà una nuova vita. Ed è proprio da qui, dalle possibilità redentrici dell'amore, che Anderson partirà per il suo successivo film Ubriaco d'amore, una delle love story cinematografiche più inventive ed anticonvenzionali degli ultimi due decenni
Da notare, in questi due straordinari minuti che chiudono Magnoliail fondamentale uso della colonna sonora, così importante per il regista tanto da arrivare a sovrastare le parole di Jim, udibili con difficoltà e solo in alcuni momenti (nel video di Youtube qui sopra avete a disposizione i sottotitoli). 
Lo stile minimalista adottato da Anderson, con la macchina da presa che si avvicina lentamente al volto di Claudia, dà ulteriore forza alla canzone Save Me di Aimee Mann, i cui versi rappresentano con evidenza lo stato soggettivo del personaggio femminile inquadrato. Non a caso, Jim si vede solo di spalle: il fulcro della scena è l'evoluzione finale di Claudia.
Uno dei tanti momenti indimenticabili di Magnolia, una lezione di regia e di costruzione drammaturgica.

Buone feste ai lettori fedeli e occasionali di Cinemagnolie


lunedì 13 dicembre 2010

"The Blues Brothers", trent'anni dopo


Incredibile ma vero. Sono già passate tre decadi da quando il 16 giugno del 1980 uscì in anteprima a Chicago The Blues Brothers, distribuito poi quattro giorni più tardi su scala nazionale e a novembre in Italia. Il film, nonostante quanto si dica e scriva di solito, non fu assolutamente un flop al botteghino: costato la cifra di 30 milioni di dollari, ne guadagnò 115 solo nel circuito delle sale cinematografiche di tutto il mondo. Senza considerare il noleggio e la vendita in videocassetta, oltre al fatto che di lì a breve il film dell’allora trentenne John Landis divenne inaspettatamente un vero e proprio cult che con gli anni, a giudicare dalla capacità di divertire, intrattenere e affascinare anche i ragazzi di oggi, ha dimostrato di essere uno dei pochi veri cult transgenerazionali della storia del cinema.
Se il box-office dunque non voltò le spalle a The Blues Brothers, spietate furono le critiche d’oltremanica. La maggior parte dei recensori di quotidiani e riviste di cinema si schierarono apertamente contro il film: il Washington Post attaccò aspramente l’operazione di Landis e del duo Belushi-Aykroyd, scagliandosi persino contro la geniale decisione di far indossare ai protagonisti degli occhiali da sole per l’intera durata del film; la celebre rivista Variety non apprezzò affatto l’irresistibile comicità demenziale che costantemente attraversa il film, giungendo persino a paragonare il film di Landis a quelli di Gianni e Pinotto (!). In Italia le cose per una volta andarono meglio, e i nostri critici si distinsero per una maggiore sensibilità nei confronti di un prodotto innovativo e anticonvenzionale che sembra non temere affatto il passare degli anni.


Genesi e trama di un cult transgenerazionale

L’idea del film nacque a partire dai due personaggi occasionalmente interpretati da Belushi e Aykroyd durante alcune delle loro apparizioni al celebre programma satirico statunitense Saturday Night Live. Il successo degli sketch esilaranti che vedevano protagonisti questi atipici fratelli così diversi fisicamente (uno tozzo e l’altro slanciato), sempre vestiti di nero e muniti di occhiali da sole, portarono Aykroyd e Landis a pensare di creare una storia attorno ai due personaggi, legandola alla loro comune passione per il rhythm and blues e per il musical. Il risultato è una commedia musicale frizzante e spassosa con notevoli tocchi di nonsense che, visti con il senno di poi, risultano aver fatto scuola nel cinema degli anni a venire. Il tutto condito da una regia abilissima nell’innescare il registro comico anche solo sfruttando le possibilità compositive dei piani di ripresa (come non ricordare, all’inizio del film, l’inquadratura espressionista con semi-soggettiva del crocifisso?).
Prima di addentrarci nell’analisi del film, ad ogni modo, riassumiamone in poche righe la storia. Jake Blues (John Belushi) esce di galera dopo aver scontato una condanna di tre anni (due in meno di quelli originariamente stabiliti grazie alla buona condotta) per aver rapinato una stazione di servizio. Il fratello Elwood (Dan Aykroyd) lo aspetta fuori dal carcere e lo convince a onorare la promessa che aveva fatto dal penitenziario: andare a trovare, non appena libero, la temibile suora che gestisce l’orfanotrofio in cui sono cresciuti. La Pinguina, come viene soprannominata la monaca dai fratelli, rivela ai due che il vescovato non ha intenzione di pagare i 5.000 dollari che l’orfanotrofio deve alla Contea e ha stabilito di vendere l’edificio al Ministero della Pubblica Istruzione. A questo punto, John ed Elwood decidono di riunire la loro vecchia band dei Blues Brothers, con l’obiettivo di guadagnare attraverso una serie di concerti la somma necessaria a mantenere in attività l’orfanotrofio. Convinti di essere “in missione per conto di Dio”, dopo che Jake nella celebre sequenza della Chiesa Battista di Triple Hall viene investito dalla luce divina, iniziano a cercare ogni singolo membro del vecchio gruppo per convincerlo a lasciare la loro attuale occupazione in nome dell’esaltazione per il blues e per la squattrinata ma libera vita del musicista.
La loro missione umanitaria sarà ostacolata da una miriade di personaggi che, per un motivo o per l’altro, danno la caccia alla band: da una giovane donna che tenta di uccidere i fratelli per vendicarsi di Jake, il quale prima di andare in prigione l’aveva mollata sull’altare, all’improbabile sparuto gruppetto di neo-nazisti del Partito Socialista Americano dei Bianchi, passando per polizia, esercito e un gruppo country cui i Blues Brothers avevano rubato una serata di esibizione.


La struttura, i personaggi, lo scopo: viva il rhythm and blues!

Sulla scia di questo semplice canovaccio, rappresentato dalla ricerca della somma che impedisca la scomparsa dell’orfanotrofio “Sant’Elena della Beata Sindone”, The Blues Brothers si sviluppa piacevolmente e senza cali di ritmo per tutti i 142 minuti della sua versione estesa. Potendo contare su una molteplicità di gag e situazioni a dir poco spassose e facendo leva su intermezzi musicali di grandissima qualità (storiche le partecipazioni, in rigoroso ordine di apparizione, di mostri sacri come James Brown, Cob Calloway, John Lee Hoocker, Aretha Franklin e Ray Charles), il lungometraggio propone una straordinaria galleria di personaggi secondari. Indimenticabili quelli già citati della ex fidanzata di Jake che tenta vanamente di far fuori Jake ed Elwood (la Carrie Fischer celebre per aver interpretato la principessa Leila di Guerre Stellari) e l’inossidabile Pinguina pronta a bacchettare i due brothers alla minima imprecazione (Kathleen Freeman, protagonista di un cameo straordinario). Altrettanto memorabile, per essere sintetici e non prodursi in un elenco stucchevole, perlomeno il personaggio del leader del partito neo-nazista interpretato da Henry Gibson (deceduto lo scorso anno e noto in primis per le interpretazioni in Nashville di Altman e Magnolia di Paul Thomas Anderson).


Alcune sequenze sono entrate nell'immaginario popolare internazionale per il loro prepotente impatto comico: si pensi alla sequenza dell’orfanotrofio che vede protagonista la Pinguina, o a quella del ristorante in cui i due fratelli, per convincere un membro della vecchia band a tornare con loro, si esibiscono in un indecoroso spettacolo davanti ai clienti del ristorante di lusso dove l’amico lavora. Celebre anche l’interminabile scena dell’inseguimento finale, che vista oggi sembra essere una efficace e davvero eccessiva parodia premonitrice delle prolungate e poco credibili scene d’azione che affollano la produzione hollywoodiana contemporanea.
The Blues Brothers ha indubbiamente il grande pregio – come scrive Renato Venturelli nella voce dedicata a John Landis nel Dizionario dei registi del cinema mondiale edito da Einaudi – di reinventare “in modo clamoroso il musical, strappandolo alle matrici teatrali, pur rispettandone esteriormente la struttura (il classico allestimento d’uno spettacolo), e usando i paradossi del cartoon in chiave antinaturalistica e libertaria”. Il film, che ancora oggi si propone come un trascinante e appassionato inno al cinema di genere (evidenti sono le citazioni a topoi del musical, del western o del noir), oltre naturalmente che al blues e alla musica tout court, ha avuto inoltre l’incalcolabile merito, in un periodo in cui i ritmi della disco-music la facevano da padrona, di ricordare ai giovani dell’epoca l’esistenza e l’importanza del rhythm and blues. Assolutamente consigliato a chi ancora, per qualche strano scherzo del destino, non abbia avuto l’occasione di vederlo.

Articolo già pubblicato nel numero 22 di Cinem'Art (Luglio/Agosto 2010)

domenica 5 dicembre 2010

"We Want Sex" di Nigel Cole


Chi si aspettava la tipica commedia brillante di stampo britannico sarà rimasto spiazzato. L’ultimo film del regista de L’erba di Grace (2000) e Calendar Girls (2003), passato lo scorso mese per il festival di Toronto e presentato qui a Roma fuori concorso, racconta infatti con una certa leggerezza di fondo, ma senza rinunciare all’inevitabile registro drammatico, la storica battaglia portata avanti nel 1968 dalle lavoratrici dello stabilimento Ford del quartiere londinese di Dagenham. 
Degradate ingiustamente dall’azienda al ruolo di operaie non qualificate, nonostante il loro impiego di cucitrici dei rivestimenti per le automobili richieda in realtà una qualifica ben precisa, le donne decidono all’unanimità di organizzare uno sciopero. Sulle prime, spaesate e indecise riguardo all’impronta da dare alla loro protesta, esse trovano nella collega Rita O’Grady (la convincente Sally Hawkins) la figura carismatica essenziale ad esprimere e diffondere le proprie ragioni. 
Grazie al prezioso aiuto dell’abile sindacalista Albert (Bob Hoskins), la lotta per essere considerate delle lavoratrici qualificate si trasforma ben presto in una più ampia battaglia per vedere riconosciuto il diritto di tutte le donne ad essere retribuite allo stesso modo degli uomini. Optando per lo sciopero ad oltranza con l’obiettivo di convincere il colosso automobilistico ad accettare la richiesta di equiparazione salariale, le scioperanti causano così il blocco totale della produzione dello stabilimento. A questo punto persino gli operai della Ford di Dagenham, costretti a rimanere a casa senza retribuzione, iniziano a mal digerire la protesta delle colleghe. Proprio quando le cose sembrano volgere per il peggio, la tenacia di Rita e delle sue compagne viene ripagata: la questione arriva sino al ministero per il lavoro e le attività produttive, dove il coraggioso ministro Barbara Castle (Miranda Richardson) sposa la loro causa creando le premesse per la futura approvazione della legge che sancirà la parità salariale tra uomini e donne (l’“Equal Pay Act” del 1970). 


Con We Want Sex, titolo quanto mai fuorviante (l’originale è il più appropriato Made in Dagenham) che fa furbescamente riferimento ad un momento del film in cui su uno striscione delle dimostranti sono visibili solo le prime tre parole della scritta “We Want Sex Equality”, l’inglese Nigel Cole realizza un’opera godibile senza grandi pretese storico-sociologiche. 
Sebbene il finale si riveli forse un po’ sbrigativo nel descrivere l’accordo tra il ministro Castle e le lavoratrici, grazie soprattutto alla buona sceneggiatura di William Ivory il film alterna con apprezzabile efficacia ed intelligenza il registro drammatico a quello ironico più tipico della commedia, intrattenendo con abilità lo spettatore senza soluzione di continuità. Per quanto non sia certo una pellicola memorabile, We Want Sex è sicuramente una delle cose migliori viste finora nelle selezione ufficiale.

Articolo già pubblicato su close-up in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma

mercoledì 17 novembre 2010

Gomorra, o l'affermazione della realtà delle mafie: per un superamento delle miopie mediatiche e delle mitizzazioni cinematografiche


Il 17 dicembre 2008, nell'Aula Magna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Roma Tre, si tenne un interessante incontro con Roberto Saviano all'interno del “Festival delle Culture. Il Sud d'Italia, il Sud del mondo, tra legalità e razzismo”, organizzato dai giovani studenti dell'Onda studentesca della facoltà. L’incontro fu un’occasione preziosa per riflettere sull'immagine che i diversi mezzi di comunicazione offrono del mondo mafioso. E su come questa cozzi profondamente con la realtà. Scrissi un articolo a riguardo per il numero di febbraio 2009 di Cinem’Art, che vi ripropongo in versione pressoché integrale in questa sede per omaggiare lo scrittore campano e l’importante trasmissione che sta andando in onda in queste settimane, Vieni via con me.

L'intervento.

Non si può certo nascondere che il clou, il surplus dell'intero "Festival delle Culture" sia stato rappresentato dalla presenza di Saviano, il quale, visibilmente emozionato, ha accettato con grande gioia l'invito degli studenti universitari, sottolineando appena presa la parola come fosse felice di trovarsi lì e di poter essere di fronte, una volta tanto, a così tanti giovani. Non bisogna dimenticare infatti che Saviano vive ormai sotto scorta da due anni, trasferendosi periodicamente da una caserma all'altra. Le uniche facce che vede con continuità, le sole persone con cui può parlare, confrontarsi e confidarsi quotidianamente sono i sette carabinieri che gli fanno da scorta.
Il lungo intervento dello scrittore – durato in totale quasi un'ora e dieci minuti – si può suddividere in quattro tronconi: una breve parte iniziale nella quale ha introdotto il mondo delle mafie, facendo riferimento ad una serie di dati particolarmente significativi; un lungo racconto di alcuni dei tanti morti provocati dalla camorra (quasi sempre ragazzi che non arrivano a 18 anni), corroborato da una serie di tragiche fotografie scattate da fotogiornalisti e cronisti; una parte più snella in cui ha mostrato come i giornali locali rappresentino, in modo deformato e palesemente connivente con la criminalità, l'assurda situazione che si consuma quotidianamente in Campania; una parte finale molto interessante sul rapporto tra cinema e mafia.
Cercheremo di rendere conto delle cose più stimolanti da lui dette, lasciando spesso e volentieri spazio alle sue stesse incisive parole. La cosa che forse più colpisce di Saviano dal vivo è infatti la sua abilità oratoria, la sua straordinaria capacità di coinvolgere e di appassionare chi ascolta con semplicità, senza tanti giri di parole o fronzoli, ma attraverso un'esposizione sintetica e densa, a tratti necessariamente dura e aggressiva. Tutte caratteristiche che d'altronde si ritrovano anche nel Saviano scrittore.


Le mafie (non) viste dai media. La realtà di una “guerra silenziosa”.

Il ventinovenne campano ha voluto fin dal principio specificare come quella messa in atto dalle mafie sia una vera e propria guerra, che ha fatto in Europa più morti del fondamentalismo islamico (“che invece sembra essere l'ossessione quotidiana della sicurezza di ogni paese”). Una “guerra silenziosa non perché non faccia rumore”, ma perché i media rimangono spesso in silenzio su queste vicende, e quando si pronunciano il commento è di solito sempre il medesimo: si ammazzano tra di loro. Questa per Saviano è la cosa più miope che possa essere detta, in quanto “non è affatto così. O meglio, spesso si ammazzano tra di loro. Ma chi sono loro e chi siamo noi lo decidono loro. Chiunque può divenire un loro se entra nelle dinamiche del loro scacchiere (dei media, n.d.r.). Come ad esempio è accaduto al giovane ragazzo Dario Scherillo, completamente incensurato, ucciso mentre andava in motocicletta solo perché aveva avuto la sventura, dirà poi la sentenza del tribunale, di vestirsi come la vittima designata. Quello che si è portati a pensare in questi casi purtroppo è che se uno vive a Scampia o a Casavatore proprio una persona per bene, in fondo, non potrà essere.
La verità, ha proseguito Saviano insistendo su questo tema considerato evidentemente nevralgico, è che l'Italia dei grandi giornali, e ancor di più quella delle grandi televisioni, spesso non si rende conto di questa guerra che avviene in una parte del Paese ed è ignorata dall'altra. Una guerra che “non è una parola scelta dalla fantasia o da un narratore che vuole impressionare”, ma è una “guerra reale” che da quando lo scrittore napoletano è nato ha fatto solo nel suo territorio più di 4000 morti. Non si può eludere un dato del genere, così come è necessario tenere presente che le tre principali organizzazioni criminali italiane (la Camorra, la 'Ndrangheta e la Mafia) fatturano, secondo la stessa procura nazionale antimafia, l'enorme cifra di 100 miliardi di euro l'anno, all'interno della quale sono contemplati esclusivamente gli affari circoscritti al territorio nazionale. Considerando che la Fiat nel mondo fattura 50 miliardi di euro annui, ci si può facilmente rendere conto di come l'economia mafiosa sia di gran lunga la più grande economia italiana. È chiaro quindi che, al di là del politico, “fosse anche onesto”, organizzazioni che dispongono di una tale somma di denaro sono in grado di condizionare la politica “indipendentemente dal rapporto di corruzione. Come la condizionano Microsoft, Bmw e General Motors”.  

Le mafie viste dal cinema. Il cinema visto dai mafiosi: l'influenza dei film sulla realtà dei clan


Prima del film di Matteo Garrone la settima arte non aveva mai rappresentato con tanto realismo il mondo delle mafie, cercando veramente di avvicinarsi quanto più possibile allo stato delle cose. Non a caso l'immagine di boss e sicari mafiosi è stata sempre legata, in particolar modo nel cinema americano, a figure carismatiche, perlomeno edulcorate, spesso affascinanti e mitizzate (si pensi a personaggi come Don Vito e Michael Corleone ne Il Padrino o al Tony Montana di Scarface). Naturalmente una visione del genere è quanto di più lontano dalla realtà ci possa essere (assai difficilmente un pluriomicida mafioso può essere considerato cool). Ed è proprio all'interno di questo cortocircuito tra la realtà e la sua rappresentazione che si innesta un meccanismo molto interessante e allo stesso tempo agghiacciante: generalmente non è il cinema ad imitare la realtà mafiosa, bensì il contrario. Se il cinema americano trasfigura la figura del mafioso fino a farne quasi un eroe, è chiaro allora che il mafioso in carne ed ossa proverà un certo gusto nell'imitare il suo alter ego di celluloide. Così il boss della cosca dei casalesi Walter Schiavone, fratello di Francesco Sandokan Schiavone, si fa costruire una villa identica a quella di Tony Montana/Al Pacino in Scarface; e il boss Cosimo Di Lauro, quando si presenta dinanzi alle telecamere poco dopo il suo arresto, si fa vedere vestito con un impermeabile nero e con i capelli tirati all'indietro come Brandon Lee ne Il Corvo. Questi due esempi ci fanno comprendere a fondo il perché i mafiosi, e in particolare i boss, siano così ossessionati dalla rappresentazione che un certo cinema fa del loro mondo: “È fondamentale mostrarsi come una star del cinema. Un boss si fa vedere pochissimo, vive sempre nascosto. Come può creare consenso intorno a sé? La leggenda di sé stesso come la crea? La crea uscendo nelle strade e mostrandosi come in Matrix, talvolta come in Pulp Fiction, come Michael Corleone. È così che un boss riesce a farsi identificare dalle nuove generazioni come un vero capo: il cinema viene utilizzato come una “grammatica per avere consenso”.
I film hanno poi influenzato la realtà delle mafie anche in modi meno sofisticati e ancor più folli: negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente gli spari in pieno volto, tant'è vero che le chiazze di sangue che vediamo nelle foto dei cronisti sono sempre in corrispondenza della faccia. Ormai tutti sparano come in Pulp Fiction, vale a dire con la canna della pistola piatta (“sparare con la canna dritta è da sfigati”). Così facendo si manca sistematicamente il bersaglio e si è dunque costretti ad avvicinarsi alla vittima per freddarla. Si capisce dunque quanto sia smisurata l'influenza del cinema sui mafiosi (e ovviamente sugli uomini in generale), riuscendo a spingerli persino ad un ben poco conveniente cambiamento di operatività militare.

            
Pubblicato nel numero 11 di Cinem'art (Febbraio 2009)

venerdì 12 novembre 2010

"Una vita tranquilla" di Claudio Cupellini


Negli ultimi anni sembra quasi che il migliore cinema italiano non possa fare a meno di Toni Servillo. L’attore campano da Le conseguenze dell’amore (2004) non sbaglia più un film e a partire dal 2007 ha inanellato una serie di performance di livello eccelso: La ragazza del lago (2007), Gomorra e Il divo (ambedue del 2008) non hanno fatto altro che palesare il talento e la forma di un interprete attualmente in stato di grazia. Nel convincente Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, presentato in concorso qui al festival di Roma, il nostro non è assolutamente da meno e si candida prepotentemente, fin d’ora, al Marc’Aurelio destinato alla migliore interpretazione maschile.

Rosario Russo è un immigrato italiano di mezza età che in Germania è riuscito a rifarsi una nuova vita. Insieme alla moglie tedesca Renate, con la quale ha un figlio piccolo, gestisce un fortunato hotel-ristorante nei pressi di Francoforte. Il cinquantenne campano non parla mai con nessuno del proprio passato e della famiglia di origine. La sua vita tranquilla (da qui il titolo del film) non è però destinata a rimanere tale ancora per molto. I torbidi trascorsi legati al Bel Paese che è riuscito a celare in tutti questi anni, infatti, cominciano inesorabilmente a riemergere quando il figlio italiano che non vede oramai da più di un decennio si presenta da lui in compagnia di un giovane uomo. Qual è il misterioso passato del protagonista? E per quale motivo il figlio Mario e il suo presunto collega in affari Edoardo lo hanno improvvisamente raggiunto? Come affermavano citando Shakespeare uno dei  personaggi e il narratore onnisciente di Magnolia, anche se si può chiudere con il passato, il passato non chiude con noi. Ed è proprio sul tema delle tragiche conseguenze della prorompente riemersione di un passato che si vuole nascondere ad ogni costo che in sostanza si concentra l’intero, potente, Una vita tranquilla.


Alla sua seconda prova dietro la macchina da presa dopo il piacevole Lezioni di cioccolato (2007), Cupellini cambia felicemente registro passando con successo dai toni della commedia leggera a sfondo sociale a quelli di un potente dramma intimista che rimanda per intensità e tematiche non solo al citato Shakespeare, ma anche alla più vasta tradizione classica della tragedia greca. Il cineasta dirige con ottima mano un’opera appassionante ed emozionante che forse ha il solo difetto di procede in modo un po’ troppo prevedibile sino al colpo di scena finale. In ogni caso ben sceneggiato dallo stesso Cupellini in collaborazione con Filippo Graviano e Guido Iuculano, il film è senza dubbio da considerarsi una delle migliori pellicole italiane di quest’anno.

Da segnalare, in coda, la magnifica sequenza della cena in cui Rosario riflette su come comportarsi nei confronti di Edoardo, nel frattempo divenuto una seria minaccia per la segretezza della sua reale identità. Composta da una suggestiva successione di primi piani, la scena è magistralmente giocata sull’abilità di Servillo di esprimersi attraverso il linguaggio non verbale ed insieme alla sequenza in soggettiva dell’incidente automobilistico di Let Me In è il momento cinematografico più significativo sinora visto al festival.

Articolo già pubblicato su close-up in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma

giovedì 14 ottobre 2010

"Manderlay": Lars von Trier alle prese con la schiavitù dei neri d'America

Dopo Dogville, eccoci scrivere del secondo capitolo della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier e che dovrebbe concludersi con Wasington, da molto tempo annunciato ma ancora sostanzialmente avvolto nel mistero.

1933. Grace, in compagnia del padre con il suo fido gruppo di gangster, torna a Denver per scoprire che il potere nella città è ormai in mano ad altre bande criminali. Il padre/boss decide allora di muoversi per l'America alla ricerca di una località nella quale stabilirsi con la forza. Durante una sosta davanti alla piantagione di Manderlay, però, Grace viene fermata da una donna di colore che la prega di aiutarla, denunciando la condizione sua e dei propri compagni di lavoro, trattati ancora come schiavi dai proprietari della tenuta. Da qui parte il film e comincia a svilupparsi il personale e per nulla scontato discorso di von Trier su uno dei momenti cardine della storia americana: la schiavitù dei neri e, più ad ampio raggio, la questione razziale.

Parlando di Manderlay non si può prescindere da considerazioni di carattere estetico. Fin da subito infatti colpiscono quella serie di strategie della messa in scena attuate già nel precedente Dogville: luci che cambiano d'intensità in modo anche brusco tra inquadrature contigue, illuminazione marcatamente teatrale, grandi spazi vuoti e spettrali su sfondo nero nel contesto di una scenografia che definire “povera” o minimalista è un eufemismo. Lo stile è nervoso (continui zoom, cambiamenti di fuoco improvvisi, movimenti di macchina costanti e irrequieti) e il numero di inquadrature molto elevato: a dispetto delle apparenze ci troviamo agli antipodi di quello che si potrebbe definire un teatro filmato. Piuttosto si può parlare di un cinema estremamente teatralizzato e stilizzato negli elementi scenografici.

Tutti questi elementi fanno sì che l'enfasi sia posta sui personaggi, le loro parole e i loro sguardi. Superate le iniziali difficoltà dovute al fatto di assistere a qualcosa che è molto lontano dalle consuete esperienze cinematografiche, lo spettatore è messo nella condizione di appassionarsi all'insolito mondo tratteggiato da von Trier, stimolato in maniera particolare dalla presenza della voce narrante che spesso fornisce con le parole quei dettagli scenografici negati sul piano visivo. Consapevole dell'inevitabile falsità del cinema, il cineasta danese si sforza di farla emergere quanto più possibile. E non è certo un caso se il film inizia con l'esplicita didascalia “Il film Manderlay è raccontato in otto capitoli”, o se l'ultimo capitolo si chiama “Alla fine Grace fa i conti con Manderlay e il film ha termine”.

Davvero ottima l'interpretazione di Bryce Dallas Howard, riuscita nell'impresa di sostituire più che degnamente Nicole Kidman nel ruolo di Grace. Non è affatto scontato che un cinema di questo tipo piaccia. Ma può rivelarsi estremamente affascinante per chi ha la pazienza e la voglia di lasciarsi andare e mettersi un po' in gioco.

martedì 12 ottobre 2010

"Dogville" di Lars von Trier: un'agghiacciante parabola sulla ferocia umana

Dogville (2003) è un film caustico, radicalmente pessimista e che quasi fastidiosamente non offre mai allo spettatore alcun tipo di speranza o riconciliazione. La prima parte della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier (dopo Manderlay del 2005, manca ancora all’appello l’ultimo episodio), è un'opera sconfortante come poche altre per il modo in cui descrive analiticamente l'innata ferocia che alberga nell'animo umano. Da questa prospettiva può venire in mente, anche se si tratta di due film diversissimi, lo sconvolgente Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman.
Grace (un'ottima Nicole Kidman) giunge improvvisamente nella cittadina di Dogville, isolata ai piedi delle Montagne Rocciose e abitata da un piccolo gruppo di persone. La ragazza sta scappando da alcuni misteriosi gangster e ottiene ospitalità dopo un periodo di prova di due settimane in cui dimostra di poter essere utile alla comunità. Inizialmente le cose sembrano andare bene e Grace appare felicemente integrata. Quando però si susseguono gli avvisi della polizia che la ricerca per conto della banda di criminali, uno dopo l'altro gli abitanti di Dogville cambiano atteggiamento nei suoi confronti, vedendo in lei una sconveniente minaccia. Invece di denunciarla o allontanarla, cominciano a sfruttarla costringendola a strenuanti orari di lavoro, fino ad arrivare a legarla come un cane e a stuprarla con disgustosa regolarità.

Diviso in 9 capitoli e un prologo, il film si avvale di una scenografia di stampo teatrale in cui dominano gli spazi vuoti e si alimenta di una struttura narrativa ridotta quasi all'osso che viene puntualmente portata avanti da un narratore onnisciente. La ricchezza del linguaggio utilizzato da quest'ultimo è inversamente proporzionale alla povertà delle immagini: ciò porta ad una inconsueta stimolazione dell'immaginazione di chi guarda che rimanda in parte all'esperienza della fruizione letteraria. Non puntare affatto sulla componente scenografica permette a von Trier, oltre che di demitizzare nelle fondamenta la classica macchina dei sogni hollywoodiana, di concentrarsi sui personaggi e le tetre dinamiche dei rapporti che li legano, portando per mano lo spettatore in un mondo riprovevole, persino assurdo e paradossale nella la sua crudeltà. Fino all'agghiacciante finale. La durata di quasi tre ore in alcuni momenti si fa sentire, ma il cineasta danese riesce nel complesso a costruire un racconto minimalista e disperante di indubbia forza.

venerdì 8 ottobre 2010

"Miami Vice" di Michael Mann


Sullo sfondo di una Miami notturna mai così malinconica e disincantata, due agenti speciali del Miami-Dade Police Department si ritrovano sotto copertura a dover far luce su un importante traffico di droga che parte dal Sud America con destinazione Stati Uniti. Come si può facilmente intuire, la storia non rappresenta niente di nuovo. Eppure Miami Vice è un action movie teso e adrenalinico come pochi nelle ultime stagioni cinematografiche, essendo allo stesso tempo più che solido dal punto di vista narrativo e, a differenza della stragrande maggioranza dei film del suo stesso genere, in grado di mettere in campo con decisione una sua anima di fondo.

Michael Mann infatti, oltre a confermarsi sopraffino regista di sequenze d'azione, non rinuncia neanche questa volta ad indagare l'universo privato e sentimentale dei suoi personaggi. Alcune delle sequenze che narrano il coinvolgimento tra le due coppie protagoniste sono intense e sapientemente intrecciate con l'evolversi della trama principale. Sonny (un Colin Farrell qui particolarmente espressivo) e Rico (il fido Jamie Foxx) sono prima di tutto degli esseri umani, ancor prima che abili e scaltri agenti di polizia. Stranamente questo aspetto “umano”, vera e propria costante della poetica manniana, sembra mancare (o perlomeno non si palesa ai livelli di straordinaria efficacia delle sue opere precedenti) nell'ultimo Nemico Pubblico, il gangster movie uscito lo scorso novembre con protagonista Johnny Depp nei panni di John Dillinger.

In ogni caso, il regista impostosi all'attenzione della critica nel 1986 con Manhunter - Frammenti di un omicidio, è oramai da Heat - La sfida (1995) che porta avanti un personale e definito percorso autoriale che assume i tratti complessi di una vera e propria “missione”: dare profondità e consistenza al film d'azione, attuandone un significativo processo di nobilitazione (oltra al già citato Heat – La sfida e naturalmente a Miami Vice, si pensi anche all'ottimo Collateral). Quando poi negli ultimi anni ha cambiato registro optando per il bio-pic (Alì, 2001) o per il film di denuncia (Insider, 1999), ha almeno nel primo caso sfiorato il capolavoro.

Davvero straordinaria la sequenza d'apertura e, ancor di più, quella magica di chiusura, che trae energia e forza inusitate da un montaggio alternato che presenta un vero e proprio doppio finale confluente infine in uno solo. Sì signori, Michael Mann è l'incontrastato re dei registi dei film d'azione. Di questi tempi purtroppo ce ne sono in giro molti (il primo è il pessimo Michael Bay, da alcuni considerato persino un autore) che fanno dell'azione niente più che confusione e sterile (nonché cattivo) esercizio di regia. Mann è al contrario l'esempio principe delle potenzialità insite oggi in un action movie costruito ad arte e che abbia anche qualcosa da dire. Come muove la macchina da presa il cineasta di Chicago, in perfetta simbiosi con musica (chi non ricorda l'utilizzo della voce di Chris Cornell in Collateral?) e movimento degli attori in scena, non c'è nessun altro. Solo Kathryn Bigelow e James Cameron (con i due Terminator e Aliens – Scontro finale) in questi ultimi anni sono forse riusciti con una certa continuità ad essere alla sua altezza. Felicissimo l'uso del digitale HD (altra “missione” dell'ultimo Mann), che inevitabilmente conferisce all'opera maggiore immediatezza e ruvidezza.

domenica 3 ottobre 2010

"Election" di Alexander Payne

All'epoca dell'uscita questo gioiellino di black comedy fu poco apprezzato dal grande pubblico (sia in Italia che negli Stati Uniti, fatte le debite proporzioni, passò in un numero ristretto di sale), ma riscosse al contrario un ottimo successo di critica, sia in patria che qui da noi. L'allora sconosciuto Alexander Payne, futuro regista di A proposito di Schmidt (2002) e soprattutto dell'ultimo brillante Sideways (2004), si fece infatti notare per la prima volta proprio con Election, commedia nera e satira pungente incentrata sull'oceano che c'è nel mezzo, quando si parla di esseri umani, tra il dire e il fare.
Ambientato in una anonima città come tante altre, Omaha, il film ruota attorno all'universo scolastico della Carver High School, soffermandosi su un evento in particolare: le elezioni del rappresentante degli studenti. Con un approccio frizzante, vivace e trascinante, la narrazione avanza alternando sapientemente i racconti e i punti di vista dei protagonisti/narratori: Jim McAllister (Matthew Broderick), lo stimato professore vincitore per ben tre anni dell'ambito premio per il miglior insegnante dell'anno; Tracy Flick (Reese Whiterspoon), l'ambiziosissima studentessa modello pronta a tutto pur di vincere le elezioni; Paul, lo studente rugbista un po' tonto, ingenuo ma sincero, idolo del liceo per via delle sue gesta sportive, che persuaso dal professore finisce per sfidare Tracy; la sorellastra di Paul, Tammy, giovane omosessuale sensibile e disadattata che si candida all'ultimo in forma di vendetta nei confronti del fratello, reo di averle inavvertitamente rubato la fidanzata.

La singolare forza con cui si sviluppano le diverse linee narrative del film è esemplificata dall'efficacissimo incipit, in cui ci vengono introdotti in modo inventivo e vivace i personaggi principali. E la sistematica discrepanza tra ciò che i personaggi raccontano (il modo in cui vedono se stessi o gli eventi che li riguardano) e quello che invece le immagini mostrano (la realtà delle cose), rappresenta un elemento satirico non certo nuovo ma che mostra con vincente dinamismo come i quattro protagonisti del film siano inevitabilmente diversi (o meglio peggiori) di quanto si dipingono e, spesso, anche di quanto si considerano consciamente. Insomma, tanto di fronte agli altri quanto di fronte a se stesso, ognuno di noi non è mai esattamente quel che dice di essere.
Senza perdere neanche per un attimo ritmo e brillantezza, Election fa leva su uno script eccellente (dello stesso regista in coppia con Jim Taylor, vincitori dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale per Sideways) e su una regia che con successo cerca di tradurne i risvolti e gli sviluppi in trovate visive intriganti, sempre felicemente funzionali al racconto. Come ha scritto con sintetica efficacia Mereghetti sul suo Dizionario, “la scuola” è vista da Alexander Payne “come metafora delle lotte di potere nel mondo adulto”, ma la sua opera è anche “un'elegia dei perdenti e dei mediocri, sconsolata e quasi disperata, ma sorretta da un'autoironia fulminante e da un umorismo vivacissimo (...) su un fondo di crudeltà e tenerezza che evita le consolazioni e i finti dilemmi (...)”. Con un finale beffardo che, sotto l'apparente scanzonata ironia, cela un sottile pessimismo pronto a scuotere lo spettatore a scoppio ritardato. Da consigliare ad occhi chiusi a chi non ha ancora avuto l'occasione di vederlo. Per molti aspetti, l'anti-Juno.

sabato 25 settembre 2010

George Romero's Survival of the Dead

Dopo quanto accaduto con il penultimo episodio della saga, di certo non c’è da essere particolarmente ottimisti. Nel nostro paese Diary of the Dead (tradotto con il titolo Le cronache dei morti viventi) è uscito nell'ottobre del 2009 in un’unica sala romana del Nuovo Cinema Aquila con ben due anni di ritardo rispetto all'anno di produzione della pellicola. Una tale “distribuzione”, se ci si passa questo termine, può avere un senso solo se pensata come presentazione (nella capitale fu fatta un’anteprima stampa) in vista dell’uscita in dvd. Nonostante abbia partecipato, con un discreto successo di pubblico e critica, alle edizioni dello scorso anno dei festival di Venezia e Toronto, difficilmente l’ultimo Survival of the Dead (2009) potrà contare su un trattamento diverso rispetto a quello riservato al suo predecessore. Persino in patria, negli Stati Uniti, è stato distribuito solo lo scorso 28 maggio in appena 20 sale, dopo essere stato già disponibile dal mese precedente attraverso il circuito del video on demand. Da noi probabilmente sarà in futuro disponibile solo in dvd, oppure, nella migliore delle ipotesi, sarà distribuito in una manciata di cinema. Ed è davvero un peccato, anche considerato il livello degli horror che invadono le nostre sale nei mesi estivi e in particolare tra giugno e luglio, che sia in pratica divenuto impossibile vedere uno dei film di George Romero al cinema.
Il settantenne cineasta newyorchese, con questo suo interessante Survival of the Dead, porta avanti l’ormai strutturato discorso sugli zombi con indubbie efficacia e solidità. Iniziata con La notte dei morti viventi nel 1968, sviluppatasi con Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005), Diary of the Dead (2007) e conclusasi (per ora) con quest’ultimo Survival of the Dead, la saga romeriana si presenta come una delle più importanti nella storia del cinema statunitense. Certamente tra le più coerenti per quanto concerne lo statuto poetico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Ogni episodio è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinati temi e – esclusi il meta-cinematografico e sottovalutato Diary of the Dead e proprio Survival of the Dead, che tra l’altro al suo interno propone un inaspettato punto di contatto con il precedente episodio – per l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.
Allo spettatore non è dato sapere con certezza quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti: nel primo capitolo, emerge l’ipotesi secondo la quale delle radiazioni provenienti da una sonda spaziale di ritorno da Venere avrebbero riattivato il cervello delle persone recentemente decedute; nel secondo episodio (ambientato tre settimane dopo il primo), si diffonde la notizia di un’infezione virale dalla provenienza sconosciuta; il terzo, il quarto e il quinto episodio, così come Survival of the Dead, non propongono più alcun tentativo di spiegazione. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera la celebre espressione hobbesiana dell’homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente, danno il più delle volte prova della loro innata tendenza allo sfrenato egoismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità (elemento che più di ogni altro dovrebbe distinguere l’uomo dalle bestie). Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune ai fini della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che, piuttosto esplicitamente, sottende tutta la saga dei morti viventi.

Survival of the Dead, come si accennava all’inizio, si colloca perfettamente all’interno di questo agghiacciante universo che il regista statunitense ha iniziato a delineare nel lontano 1968. La trama, come al solito, non è che un canovaccio studiato meticolosamente per far risaltare quelle allegorie sociologiche, antropologiche e politiche che Romero sa immettere così sapientemente nel flusso narrativo. Da sei giorni i morti hanno cominciato a riprendere vita. Questa volta il principale luogo dell’azione è Plum, una piccola e incantevole isola nella quale, a mano a mano che le vicende narrative si sviluppano, la bellezza della natura risulterà sempre più in netto contrasto con la brutalità dei comportamenti degli uomini che ne fanno parte. Plum è da sempre abitata da due grandi famiglie rivali, gli O’Flynn e i Muldoon. I due capo-famiglia attuali, Patrick O’Flynn e Seamus Muldoon, si odiano fin da quando erano piccoli e sono in profondo disaccordo su come affrontare l’emergenza-morti viventi. Il primo è deciso a sparare in testa a chiunque muoia per evitare ogni pericolo, il secondo invece, spinto dalle proprie ottuse convinzioni religiose, si oppone a una tale drastica soluzione, proponendo di legare tutti gli zombi in attesa che si trovi loro una cura o che si riesca ad educarli a non nutrirsi di carne umana. Nel frattempo un gruppo di quattro militari, giunti nell’isola insieme a un ragazzo nella speranza di trovare in Plum un posto più sicuro rispetto alla terraferma, si schierano con O’Flynn. Il risultato sarà una guerra fratricida tra i pochi uomini rimasti vivi, mentre gli zombi svolgono un ruolo di secondo piano, stanno sullo sfondo quasi fossero dei semplici spettatori esterni di un macabro ed insensato spettacolo tutto umano.
Sul piano tematico, la grande novità e la forza di Survival of the Dead stanno nel fatto che per la prima volta ci si concentra molto sul tema della religione (non sembra azzardato leggere nell’opera una riflessione sull’eutanasia o, più in generale, sulla concezione della vita da parte della Chiesa cattolica e protestante) e su come essa possa dividere e portare gli esseri umani ad uno scontro feroce, senza esclusione di colpi. A differenza dei suoi dead movies precedenti, questa volta Romero punta decisamente sul registro comico-ironico. Tanto che probabilmente i suoi fan, quando avranno modo di vedere Survival of the Dead, all’inizio storceranno un po’ il naso. Eppure non si può fare a meno di notare che, sebbene in alcuni momenti il registro (auto)ironico possa forse apparire un po’ eccessivo o fuori contesto, nell’ambito generale dell’opera non stona affatto, offrendo al film un’inedita aria più distesa e giocosa che alla fine si rivela vincente. Chissà che Romero, a tal proposito, non abbia voluto consapevolmente confrontarsi, ricorrendo a inserti scopertamente grotteschi e comici, con la nuova tendenza parodistica che ha investito i film sui morti viventi a partire dal divertente L’alba dei morti dementi del 2004 (l’ottimo successo negli States del recente Zombieland, in uscita in Italia il 7 maggio, sembra testimoniare che questo filone è destinato a manifestarsi nuovamente nel prossimo futuro).

Che gli zombi continuassero istintivamente a compiere le azioni cui erano abituati da vivi, lo avevamo capito a partire dalle indimenticabili scene del centro commerciale di Zombie, ma la trovata finale con cui si sfrutta questo dato già assodato è potente e geniale (come si sarebbe potuto chiudere meglio questo film?). In alcuni momenti il comico e il sarcasmo funzionano a meraviglia, come ad esempio nella scena in cui Seamus Muldoon spiega nella sua sala da pranzo il motivo per il quale si ostina a non uccidere i morti viventi. Nonostante Survival of the Dead non sia all’altezza dei primi tre capitoli e de La terra dei morti viventi, è comunque un film dalla solida struttura e molto interessante per i temi che propone. Oltre alla già citata immagine finale, almeno due o tre sequenze sono davvero intense e dal forte impatto metaforico. Si potrebbe scrivere che quei pochi straordinari momenti di un film comunque complessivamente riuscito valgono da soli il prezzo del biglietto, se solo ci fosse all’orizzonte una distribuzione.

Articolo pubblicato nel numero 21 di Cinem'Art (Maggio/Giugno 2010)

domenica 19 settembre 2010

"Roger & Me" di Michael Moore: l'altra faccia del Sogno Americano


Il senso di Roger & Me, il primo sorprendente lavoro del 1989 di Michael Moore (affermatosi poi a livello internazionale una quindicina di anni più tardi con l'accoppiata Bowling A Columbine-Farenheit 9/11), è racchiuso nell’ultima inquadratura del documentario: uno zoom all'indietro contestualizza una sventolante bandiera americana in cima ad un edificio circondato da strutture in via di demolizione.
A Flint (Michigan), città natale del regista statunitense, la General Motors licenzia nel 1986 trentamila operai per trasferirsi in Messico e risparmiare in tal modo sulla manodopera. Moore indaga la mutata realtà sociale e cerca vanamente, più volte, di avere un colloquio con il presidente dell'azienda automobilistica, Roger Smith, per invitarlo a Flint a vedere di persona le tremende conseguenze del suo atto. Roger & Me ci mostra una città-fantasma in cui, a seguito dell’imponente licenziamento, la maggior parte degli abitanti si trovano improvvisamente senza lavoro. I sussidi governativi mensili sono assai esigui e per sopravvivere ci si inventa di tutto: in un tessuto sociale totalmente sfaldato, c’è chi dona il sangue più volte la settimana e chi vende conigli vivi da compagnia o macellati pronti per essere mangiati.

Va da sé che in questo tragico contesto crescano esponenzialmente criminalità e omicidi. Flint arriva persino considerata dalla famosa rivista americana Money la peggiore città degli Stati Uniti d’America. Il tutto nell’assoluta indifferenza delle autorità locali, le quali si limitano ad organizzare incontri con personaggi famosi del piccolo schermo, divi locali e predicatori allo scopo di tenere alto il morale dei cittadini e convincerli della possibilità di ricostruirsi una vita. Con simili “provvedimenti”, la situazione naturalmente non accenna a cambiare. Dopo aver costruito un nuovo carcere (l’unico esistente è ormai sovraffollato), allora le autorità decidono di tentare il tutto per tutto: trasformare la città in una località turistica di richiamo. Quello che si suol dire un deus ex machina. Vengono così costruiti un lussuosissimo albergo e un grande centro commerciale, destinati ovviamente a rimanere vuoti e a fallire in pochi mesi, dal momento che difficilmente un luogo spettrale in cui regnano sovrane povertà, disoccupazione e disperazione può divenire per magia una ambita meta turistica.

Dal documentario di Moore emerge una sorta di atmosfera post-apocalittica che non sfigurerebbe affatto in un film catastrofico e che ci mostra l’altra faccia dell’America di Reagan. Un'America in cui il tradizionale mito della “seconda possibilità” è destinato miseramente a non trovare spazio e dove, come narra la voce fuori campo di Michael Moore in conclusione, alla fine del ventesimo secolo “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Di fortissimo impatto la sequenza in cui con un insistente montaggio parallelo vengono mostrati gli sfratti che, come ogni giorno precedente, il vice-sceriffo sta compiendo anche alla vigilia di natale. Proprio mentre Roger Smith tiene il tradizionale discorso a un gruppo di suoi dipendenti, in cui elogia la bellezza e la magia del periodo natalizio e il “suo spirito totalizzante”, ricordando che “la dignità e i valori umani sono il nostro patrimonio comune”. Pur essendo meno conosciuto, Roger & Me è da considerarsi a buon diritto al livello di Bowling A Columbine, Farenheit 9/11, Sicko e dell'ultimo Capitalism: A Love Story.