lunedì 26 aprile 2010

Il malinconico mondo di Fantastic Mr. Anderson


Se si fa eccezione dei suoi fan più accaniti, in molti tra pubblico e critica ritenevano che, dopo il riuscito The Darjeeling Limited (2007), Wes Anderson avesse bisogno di confrontarsi con qualcosa di decisamente diverso rispetto alle sue opere precedenti. Un colpo da dilettanti (1996), Rushmore (1998), I Tenembaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), nonché appunto il lavoro sopra citato, sono infatti tutti ottimi film molto simili tra loro. Ognuno dei quali incentrato su un ristretto gruppo familiare e/o di amici: esseri umani spesso profondamente segnati dal dolore, dalla mancanza di importanti figure familiari di riferimento, da complessi vari e pressanti desideri inappagati; personaggi in balia della sorte, il più delle volte privi di prospettive definite e alla disperata ricerca di comprensione e redenzione. Le storie in cui queste figure si muovono, poi, sono scarne e condite da quel caratteristico tratto poetico che porta il cineasta di Houston ad affrontare disavventure e problemi della vita con encomiabili umanità e sensibilità, oltre che con una complessiva, affascinante leggerezza nella quale convivono sempre una peculiare agrodolce ironia e una malinconia di fondo più o meno marcata. Se l’eclettismo o la poliedricità generalmente sono il terreno sul quale davvero si misura la grandezza di un artista (sia questi un poeta, un pittore, un musicista o un regista), allora è del tutto comprensibile che a questo punto da Wes Anderson – dopo cinque lungometraggi che hanno meritevolmente attirato l’attenzione dei critici – ci si aspettasse un progetto che in qualche modo si distanziasse da quanto visto in precedenza.

Una nuova sfida: lo stile e l’aspetto visivo

È in questo contesto che crediamo si debba inquadrare Fantastic Mr. Fox (2009, uscito in questi giorni nei cinema italiani), un affascinante, ironico, spassoso ma al contempo malinconico cartone animato vecchia maniera, girato in gran parte attraverso quella classica tecnica dello stop motion che permette di animare su pellicola veri modellini e pupazzi in miniatura. In un’epoca in cui oramai l’industria dell’animazione si sta dirigendo con forza verso il digitale (oltretutto con ottimi risultati: si pensi in primis al caso Pixar), Anderson ha scelto di andare in una direzione opposta, ad oggi decisamente controcorrente, nonostante sia stata intrapresa in modo significativo da Tim Burton nel passato recente con Nightmare Before Christmas (1993) e La sposa cadavere (2005). E vedendo la sua opera, sin dai primissimi fotogrammi ci si sente piacevolmente immersi in questa atmosfera démodé, anacronistica e bizzarra, che finisce per risultare perfettamente in sintonia con il mood e la tipicità delle relazioni tra i personaggi messi in scena.
Se, come vedremo più avanti, sul piano dei contenuti e dell’approccio alla materia narrativa, Fantastic Mr. Fox è evidentemente legato a doppio filo alla poetica andersoniana, per quanto concerne lo stile e l’aspetto visivo il film ha sicuramente rappresentato per il regista una sfida di un certo rilievo.
Il film-maker texano è riuscito in pieno a trasportare la propria autorialità nel campo del film d’animazione, realizzando quello che forse può essere definito come il più cinematografico tra i cartoni animati. L’avventurosa storia della volpe Mr. Fox e della sua famiglia è, infatti, narrata attraverso un linguaggio filmico ricco ed efficace: zoom in avanti e zoom indietro, carrelli laterali e in avanti (se così possono essere chiamati tali espedienti stilistici nel caso di un film in stop motion), un tripudio di primi piani, numerose soggettive piuttosto evocative, nonché persino alcune panoramiche a schiaffo e semi-soggettive di un cane rabbioso. Nei movimenti della macchina da presa e nel ritmo con cui si alternano le inquadrature, Anderson a tratti riesce a raggiungere un’intrigante “musicalità”, alquanto insolita per un cartone animato. Senza dimenticare il decisivo apporto del talentuoso e nutrito team di animatori e creatori di pupazzi e modellini, si può insomma affermare che il risultato dal punto di vista estetico è davvero formidabile.

La narrazione: ispirazione letteraria e continuità poetica

Tratto dall’omonimo racconto illustrato dello scrittore Roald Dahl, divenuto famoso dopo la seconda guerra mondiale come autore tanto di libri non convenzionali per bambini quanto di brevi racconti per adulti, Fantastic Mr. Fox ne segue abbastanza fedelmente gli sviluppi. Naturalmente con delle aggiunte (in particolare l’entusiasmante prologo e l’epilogo) e in generale con una serie di differenze, come è doveroso che avvenga nel caso di un adattamento cinematografico: cercando però evidentemente di rimanere il più fedele possibile allo spirito complessivo dell’opera letteraria e all’essenza dei personaggi in essa raffigurati. D’altronde Anderson, intervistato durante la promozione del film, si è più volte pubblicamente dichiarato un grande ammiratore di Dahl. E non è certo difficile comprenderne i motivi: le modalità con le quali lo scrittore, pur avendo come target di riferimento dei fanciulli, delinea i rapporti tra i personaggi e le vicende di cui questi sono protagonisti, vanno sempre nella direzione di una costante e suggestiva sinergia tra ironia e malinconia, leggerezza e disincanto. Tanto che abbozzare un paragone tra le poetiche dello scrittore e del cineasta non risulterebbe di certo azzardato.
Alla luce di questi discorsi, dunque, non deve sorprendere che Anderson abbia deciso di evidenziare sin da subito e in modo palese la matrice letteraria del suo lungometraggio, aprendolo con una citazione diretta del racconto di Dahl (“Boggis and Bunce and Bean, one fat, one short, one lean. These horrible crooks, so different in looks, were none the less equally mean”), seguita poi significativamente – dopo pochi credits produttivi – da un’immagine della copertina del libro. Sempre in questa direzione, va vista inoltre la decisione di organizzare la struttura narrativa intorno ad una serie di brevi capitoli, proprio come nel caso del racconto, mantenendo anche in diverse occasioni gli stessi titoli dei capitoli del libro.
Arrivati a questo punto, diviene quanto mai necessario dedicare qualche riga alla storia del film, così da poter poi analizzare sinteticamente i motivi dell’originalità dell’operazione andersoniana sul piano narrativo. In particolare rispetto al genere d’animazione. Mr. Fox è una volpe astuta e affascinante, un narcisistico oratore sempre con la battuta pronta. Abile ladro di polli e galline, lavora in coppia con la bella moglie Mrs. Fox, la quale però lo convince ad abbandonare questo tipo di vita dopo aver scoperto di essere incinta. Per mantenere legalmente il figlio Ash, Mr. Fox si dà così alla carriera giornalistica. Insoddisfatto della sua abitazione sottoterra, decide di compiere uno sforzo economico per comprarsi una casa all’interno di un bel faggio, trovata ad un prezzo favorevole in quanto situata a poca distanza dagli allevamenti dei tre contadini più ricchi e spregevoli della vallata, i temibili Walt Boggis, Nate Bunce e Frank Bean. Il primo è un grasso allevatore di galline che “pesa quanto un giovane rinoceronte”, il secondo, così basso che “il suo mento finirebbe sott’acqua anche nella meno profonda piscina del pianeta”, alleva anatre e oche, mentre il terzo, “magro come una matita e furbo come una tagliola”, è allevatore di tacchini, coltivatore di mele e di gran lunga il più pericoloso di tutti. I guai per Mr. Fox e la sua famiglia cominciano quando il primo non riesce a resistere alla tentazione di organizzare, di nascosto dalla moglie, un triplo colpo volto a derubare i contadini. Per portare a termine l’impresa, si avvale dell’aiuto di un rintronato ma fedele opossum di nome Kylie e del nipote Kristofferson, ragazzo dalle invidiabili doti atletiche e di un certo fascino.
Le innumerevoli peripezie che i protagonisti devono affrontare per evitare di essere catturati e uccisi dai malvagi Buggis, Bunce e Beane vengono raccontate, oltre che con affascinanti trovate visive, con un ritmo incalzante e un uso della musica inconsueto per un cartone animato: Alexandre Desplat ha composto degli sfondi sonori molto stimolanti (alcuni rimandano anche a Morricone e alle sonorità del “western all’italiana”) e il ricorso a brani come Heroes and Villains, I Get Around e Ol’ Man River dei Beah Boys o Street Fighting Man dei Rolling Stones risulta assolutamente vincente. Il tutto, come si accennava in precedenza, avvolto da un’atmosfera spassosa ma al contempo malinconia, di certo inusuale per un film d’animazione. Mr. Fox maschera evidentemente con la parlantina e le proprie abilità imbonitorie l’insoddisfazione per il lavoro che svolge (dichiara lui stesso di scrivere per un quotidiano di scarsa qualità) e per la non florida situazione economica familiare, Ash soffre perché teme di non essere apprezzato dal padre per quello che è ed invidia il fascino di Kristofferson, il quale invece è preoccupato per le precarie condizioni di salute del padre, il fratello di Mrs. Fox. Quest’ultima, sebbene innamorata del marito, si lamenta apertamente con lui della sua incapacità di ascoltare chi gli sta accanto, cosa di cui in uno dei momenti più toccanti del film sembra finalmente accorgersi lo stesso Mr. Fox.

Non c’è quindi da meravigliarsi se capita di assistere a dei dialoghi (la sceneggiatura è dello stesso Anderson e del fido Noah Baumbach) che, allo scopo di delineare i sentimenti appena descritti, tradiscono delle venature malinconiche piuttosto marcate. Non è da tutti i giorni ascoltare, in un cartone animato, frasi come quella pronunciata da Mr. Fox mentre spiega alla moglie il suo desiderio di trovarsi una casa più ampia e confortevole (“Tesoro, ho sette anni umani. Mio padre morì a sette anni e mezzo. Non voglio più vivere in un buco. E ho intenzione di fare qualcosa al riguardo”) o quella che Mrs. Fox rivolge al marito nella bellissima sequenza della fogna che li vede protagonisti sullo sfondo di una cascata d’acqua piovana (“Ti amo anch’io, ma vorrei non averti sposato”).
È evidente come con Fantastic Mr. Fox Wes Anderson, investigando possibilità d’espressione per lui inedite e dimostrando di sicuro la volontà di provare qualcosa di differente, sia al contempo riuscito con sapienza ad inserire in un contesto d’animazione i tipici stilemi narrativi del proprio cinema. Sperimentando molto dal punto di vista estetico, ma in fondo rimanendo estremamente fedele al proprio malinconico e vitale mondo poetico. Sarà questo un punto di partenza per un prossimo, più deciso, cambio di rotta?

Articolo pubblicato nel numero 20 di Cinem'Art (Marzo-Aprile 2010)

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