domenica 11 aprile 2010

Invictus: Nelson Mandela visto da Clint

Il 2008 è stato per lui un annus mirabilis, con le uscite a pochi mesi di distanza di un potente e misurato dramma intimista (Changeling) e di un coinvolgente viaggio all’interno di un intenso percorso di crescita umano (Gran Torino, il suo ultimo lavoro d’attore con il quale ha sapientemente fatto i conti con il proprio passato: l’ispettore Callaghan). A questo punto, ci si sarebbe potuti aspettare una pausa di riflessione, anche perché nel decennio che sta per concludersi ha sinora firmato ben dieci pellicole ed è stato l’autore di alcuni dei film più significativi del periodo in questione: Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2004), Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (girati insieme, entrambi del 2006), oltre alle due opere del 2008 appena citate. Invece il buon vecchio Clint, classe 1930, si è subito rimboccato le maniche e ha deciso di gettarsi a capofitto su una storia che gli permettesse in qualche modo di continuare la strada intrapresa con Gran Torino. Se in quest’ultimo il protagonista Walt Kowalski, un anziano razzista, ruvido e reazionario reduce dalla guerra coreana, imparava ad apprezzare la comunità cinese che negli anni aveva popolato il suo quartiere, in Invictus la storia di Nelson Mandela e del Sudafrica nel periodo che va dal 1990 al 1995 (dalla scarcerazione alla storica vittoria della squadra sudafricana di rugby nella Coppa del Mondo) si fa toccante inno universale alla tolleranza e alla solidarietà. La particolare vicenda degli Springboks e della loro impresa – su cui Mandela con lungimiranza scommise per cercare a tutti i costi di ricucire le enormi lacerazioni nel tessuto politico, economico e sociale di un paese appena uscito dall’apartheid – nelle mani di Eastwood diviene dunque un mirabile ed efficace racconto di formazione di un popolo.
Tornando al biopic dopo il capolavoro sulla vita di Charlie Parker (Bird, 1988), Eastwood tratteggia la figura di Mandela con la sobrietà e il tatto che oramai da anni lo contraddistinguono, non accontentandosi esclusivamente di raccontare una grande storia in cui trionfa la speranza, ma dando spazio sullo sfondo anche alle angosce e ai dolori di un uomo straordinario dai problemi personali sin troppo ordinari. Nelson è visto da Clint come uno dei più grandi uomini politici del Novecento, una guida illuminata che, nella sapiente gestione della leadership, in una certa qual misura rimanda alla genialità e all’acume di Gandhi. Eppure, del grande leader sudafricano non viene fatto un eroe monodimensionale, ma un uomo con qualità umane e politiche fuori dal comune sul quale però incombe costantemente il gravoso fardello dei difficili rapporti familiari, segnati dalla lontananza e dalla freddezza, perlomeno nel periodo 1990-1995 e da quanto emerge dal film. Fin dalle prime inquadrature, Mandela ci viene proposto come un uomo estremamente determinato nel portare avanti il proprio ambizioso progetto di democratizzazione. Ma vista l’estrema difficoltà dell’impresa che vede davanti a sé, più di qualche sfumatura di malinconia e incertezza è sempre presente tra le pieghe del volto di un Morgan Freeman che, come è stato già scritto da Giulia D’Agnolo Vallan su Il Manifesto in occasione dell’uscita statunitense del film, più che interpretare Mandela davvero lo “incarna”. Ogni gesto, sorriso, e più in generale misurato movimento del corpo o espressione del volto di Freeman, rimanda direttamente alla figura di Madiba (come veniva affettuosamente chiamato Mandela dai neri sudafricani) e l’interpretazione dell’attore afroamericano ha qualcosa di magico e meraviglioso, costituendosi come una delle interpretazioni più impressionanti viste al cinema negli ultimi anni, a cui è possibile attribuire un rigore filologico degno di un accurato studio critico.

Ma per ora torniamo alla storia del film, così da poter poi affrontare brevemente anche l’inevitabile discorso sullo stile, al quale è impossibile sottrarsi avendo a che fare con Clint. Seguendo una linea-guida ispirata alla riconciliazione, ciò che Mandela volle fortemente evitare fin dall’inizio del suo mandato fu entrare nella spirale di un’aspra polarizzazione tra comunità bianca e nera, che avrebbe quasi certamente portato il Sudafrica alla guerra civile. Appena insediatosi, cercò in tutti i modi di tranquillizzare i bianchi che temevano ritorsioni, diffondendo forti messaggi di unità nazionale e cercando di dimostrare in tutti i modi la propria imparzialità. La frattura sociale era direttamente proporzionale a quella economica e il neo-leader, inizialmente incompreso da tutti i membri del governo e del proprio partito, vide nel rugby (sport amato dai bianchi e che aveva rappresentato per anni l’apartheid e la repressione dei neri) la grande possibilità di unificare il paese. Così, prima si batté affinché agli Springboks non venissero cambiati nome e colori sociali, come volevano in molti tra ministri e popolazione, poi riuscì nell’impresa di far divenire il rugby uno sport nazionale, amato da tutta la popolazione. L’insperata vittoria ai mondiali di una squadra qualificatasi alla manifestazione solo in quanto paese ospitante, costituì così il primo fondamentale passo verso l’effettiva unificazione del Sudafrica, riuscendo ad unire nella gioia tutti i 43 milioni di abitanti e facendoli sentire per la prima volta un popolo unito. Oltre ogni pregiudizio e incomprensione. Questa fu la grandezza di Nelson Mandela: comprendere a fondo che in qualche modo il rugby, nella situazione impervia in cui versava il paese, fosse da considerarsi una priorità. Solo in seguito ad una raggiunta unità, infatti, sarebbero state davvero possibili le necessarie riforme.
Nell’estrema semplicità della sequenza finale, che narra la storica vittoria degli Springboks sui temibili All Blacks neozelandesi alternando ruvide immagini dal campo a immagini che mostrano persone in luoghi disparati del Sudafrica mentre seguono con eguale passione la partita (per la prima volta sintonizzati su una stessa lunghezza d’onda emotiva), c’è tutto il cinema di Clint Eastwood. Un cinema capace di emozionare in modo trascinante con poche, scarne pennellate: in questo caso specifico attraverso un banale montaggio alternato. Eastwood negli anni ha fatto dell’essenzialità e della sottrazione un possente tratto poetico e la sua lezione, di questi tempi, è sempre più da tenere in considerazione. Si può ancora emozionare con semplicità e, come Eastwood sa fare da sempre, toccando con sapienza, tempestività e senso del ritmo le giuste corde emotive. Battendosi per l’essenzialità sul piano espressivo, ma rifuggendo a qualsiasi livello la semplificazione: alla costante ricerca della complessità delle sfumature e del chiaroscuro. Nonostante le straordinarie possibilità espressive del nuovo cinema in 3D di James Cameron (anche chi ama Eastwood e il minimalismo cinematografico ha il dovere di andare a vedere Avatar), sarebbe banale e imperdonabile dimenticarsi, oggi, delle altrettanto floride possibilità di quella bidimensionalità che sinora ha fatto grande la settima arte. Mentre concludiamo di scrivere questo articolo, questo cineasta californiano che per noi è senza dubbio uno dei più importanti cineasti viventi, come abbiamo già avuto modo di affermare in questa rubrica in occasione dell’uscita di Changeling, continua nella sua attività irrefrenabile. All’età di 80 anni, nel pieno della maturità artistica, sta girando Hereafter, incentrato sulla vita di tre persone – un operaio americano, un giornalista francese e uno studente londinese – toccate in differenti modi dalla morte e che viene definito dalle venature soprannaturali. Sembrerebbe la trama di un film a metà tra Iñarritu e Shyamalan. Ma invece è solo l’eclettico, inossidabile Clint.

Articolo pubblicato nel numero 20 di Cinem'Art (Gennaio/Febbraio 2010)

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