giovedì 29 aprile 2010

Nemico Pubblico: nel segno di Michael Mann


Il ritorno dietro la macchina da presa di Michael Mann, a tre anni dal folgorante Miami Vice (2006), è in parte – e a sorpresa – una delusione. Un mezzo passo falso. Ambientato nel 1933 sullo sfondo di un'America ancora alle prese con la Grande Depressione, Nemico Pubblico è un film certamente solido dal punto di vista narrativo nonché godibile, essendo però sostanzialmente avaro di grandi emozioni, fondamentalmente piuttosto freddo. E questa per un film di Michael Mann è davvero una notizia. La celebre commistione manniana di action e romance (sulla quale ritorneremo più avanti in modo approfondito) volta solitamente a rappresentare l'umanità dei personaggi portati sullo schermo, e così riuscita in opere di grande impatto visivo-emotivo come Heat - La sfida (1995), Collateral (2004) o Miami Vice, qui non funziona a dovere. La sceneggiatura (firmata a sei mani dallo stesso Mann, Ronan Bennett e Ann Biderman), in verità si concentra molto sulla relazione tra il gangster John Dillinger (Johnny Depp) e l'amata Billie Frechette (Marion Cotillard), facendone sulla carta il cuore della narrazione. Eppure a nostro avviso le vicende sentimentali del protagonista non coinvolgono più di tanto e non si integrano mirabilmente e con forza con il resto della trama, come poteva accadere ad esempio in un Heat o un Miami Vice. Rispetto a Heat e Collateral, poi, il classico duello tra “sfidanti” è chiaramente relegato sullo sfondo, tant'è vero che il personaggio del detective che dà la caccia a Dillinger, Melvin Purvis (Christian Bale), è appena abbozzato. Ciò è piuttosto spiazzante, dal momento che sulla sfida (anche dialogica) tra i due personaggi principali, in passatto il cineasta nordamericano aveva fondato una parte non trascurabile del fascino dei propri film. Come non ricordare gli scambi di battute tra Pacino e De Niro in Heat, o il rapporto tra il killer a pagamento Cruise e il tassista Foxx delineato in Collateral? Il motivo di tale scelta è legata con ogni probabilità al fatto che questa volta Mann aveva a che fare con un personaggio realmente vissuto, con una storia vera seppur inevitabilmente da romanzare. Dunque, costruire un fittizio rapporto tra fuorilegge e poliziotto sarebbe stato sì drammaturgicamente molto interessante, ma avrebbe probabilmente costituito un artificio eccessivo. Certo è che in questo modo il baricentro si sposta notevolmente sul rapporto tra Johnny e Billie, e il film alla resa dei conti ne risente vistosamente. La sfida tra Dillinger e Purvis quindi non si accende e rimane sullo sfondo, facendosi in parte emblema dell'opera tutta, che pure non arriva in nessun caso ad annoiare grazie ad una regia sempre ispirata che, insieme alle ottime interpretazioni di Johnny Depp e Marion Cotillard e alla fotografia del nostro Dante Spinotti, tiene a galla l'opera nel suo complesso. Nemico Pubblico vive a sprazzi di momenti felici (qualche sequenza d'azione, come ad esempio quella in cui Purvis uccide “Pretty Boy” Floyd, alcuni scambi dialogici davvero ben scritti tra Dillinger e Frechette, la suggestiva sequenza finale, in parte ambientata all'interno di un cinema, con Depp/Dillinger che si identifica nel criminale “gentiluomo” interpretato da Clark Gable in Manhattan Melodrama), ma per il resto si presenta incredibilmente piatto per essere un film di Mann. Le responsabilità ci sembra si possano rintracciare in particolar modo nello script, che questa volta non riesce nell'impresa di integrare con successo azione e sentimenti attraverso un impianto narrativo-drammaturgico ispirato, in grado al contempo di ospitare personaggi a tutto tondo. E il film per i suoi 140 minuti scorre anche piacevolmente, non lasciando però in chi guarda un'impronta indelebile, un segno intenso di sé.

Tutto ciò fa sì che non ci si appassioni fino in fondo alle vicende del gangster adorato dal popolo, agli inizi degli anni Trenta, come una sorta di icona pop ante litteram. L'utilizzo del digitale HD, costante espediente stilistico dell'ultimo Mann, pur portando ad un risultato complessivo più che buono, non si avvicina ai risultati espressivi strabilianti raggiunti con Miami Vice e ancor più con il precedente Collateral, la straordinaria sinfonia urbana, sfavillante e cupa allo stesso tempo, sulla solitudine dell'uomo nella metropoli contemporanea. Le scene d'azione però sono girate magnificamente, con un piglio vigoroso e coinvolgente che, in pieno stile Mann, gioca insistentemente su piani ravvicinati, montaggio serrato e continui movimenti (spesso e volentieri a mano) della macchina da presa. Il regista giunto per la prima volta sotto i riflettori della critica internazionale con Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986), è un maestro indiscusso nel girare sequenze d'azione e, quando muove freneticamente la macchina da presa, riesce sempre a catturare con sorprendente forza l'attenzione di chi guarda, mostrandosi poi in grado – elemento per nulla secondario – di rifuggire dalla possibilità sempre incombente di creare confusione. Nella stragrande maggioranza delle pellicole contemporanee, infatti, le sequenze d'azione si risolvono sovente in un calderone di immagini poco chiare e di scarsa incisività, dalle quali si finisce per essere fondamentalmente disorientati (fare esempi come Michael Bay o Tony Scott da questo punto di vista è sin troppo facile). Mann invece in questi casi è abile come pochi nel controllare il materiale filmico a sua disposizione, essendosi senza ombra di dubbio rivelato nel tempo come il miglior regista di action movies in circolazione. La sua filmografia è gravida di esempi che confermano questa tesi, e non basterebbe il restante spazio a disposizione in questa rubrica per farne un elenco esaustivo. I film di riferimento da questo punto di vista, comunque, sono in particolare Heat, Collateral e Miami Vice. Solo Kathryn Bigelow ha dimostrato negli ultimi anni di sapersi proporre ad un livello eccelso con una certa continuità: si pensi alle messe in scena di Point Break (1991), Strange Days (1995), K-19 The Widowmaker (2002) o dell'ultimo The Hurt Locker (2008). A differenza dei film della Bigelow, la componente action nelle opere di Michael Mann, come si accennava in apertura di articolo, non è mai slegata dal romance. O meglio, l'azione è sempre accompagnata da una particolare attenzione nei confronti dei sentimenti dei personaggi messi in scena, del loro peculiare aspetto umano. Tutti i protagonisti dei film di Mann, infatti, sono sempre innanzitutto degli esseri umani, ancor prima che killer, ladri o poliziotti, giornalisti o manager dell'industria del tabacco. Le loro vicende familiari e/o sentimentali giocano un ruolo di primo piano all'interno della trama principale. Un esempio paradigmatico è quello di Miami Vice, dove alcune belle sequenze raffiguranti il sentimento amoroso che si ripropone o sboccia tra le due coppie protagoniste, sono sapientemente intrecciate con lo sviluppo delle vicende diegetiche principali, fungendo con grande efficacia da “pause sentimentali” (Mereghetti) nel flusso costante e frenetico dell'azione. Al centro dell'action movie manniano, dunque, c'è senza ombra di dubbio l'uomo. Queste pause sentimentali sono facilmente rintracciabili in film anche diversi tra loro come Insider – Dietro la verità (1999), Alì, Heat. Lo stesso L'ultimo dei Mohicani (1992) fa evidentemente leva in maniera decisa sulla relazione sentimentale tra Daniel Day-Lewis, inglese di nascita adottato da una famiglia di indiani d'America, e l'attraente Madeleine Stowe, figlia di un colonnello britannico. A proposito e a conferma di quanto scriviamo, è interessante rendere conto di come esprima il nostro stesso concetto Alessandro Canadè sul sempre utile Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi): “Mann sembra condividere quello stesso «impegno» etico ed estetico verso un «cinema antropomorfico», verso il racconto di «storie di uomini vivi nelle cose» che in un celebre articolo apparso sulla rivista «Cinema», nel 1943, accompagna l'esordio al cinema di Luchino Visconti”. Il parallelo tra la poetica manniana e quella esposta nel Cinema antropomorfico viscontiano, ospitato dalla celebre rivista che diede un impulso decisivo al cosiddetto “movimento” neorealista, potrebbe effettivamente sembrare azzardato. Ma in fondo è da considerarsi felice e d'effetto per come rende efficacemente l'idea di un cinema costantemente volto a coltivare un fruttuoso rapporto con i propri personaggi. Una volta Mann, come riporta ancora lo stesso Canadè, ha esplicitamente affermato: “Se esiste una ragione per cui valga la pena di fare il regista, è quando posizioni la macchina da presa davanti agli attori, e senti la loro stessa vita passare attraverso la lente”.

Questo peculiare sforzo del regista statunitense nel tentativo di conferire umanità ai propri personaggi, è dunque una componente imprescindibile della sua poetica, strettamente legata ad un percorso autoriale che, a partire da Heat, ci sembra abbia assunto i tratti di una vera e propria “missione”: dare profondità e consistenza al film d'azione, attuandone, in un'epoca di blockbusters spesso fracassoni e grossolani, un significativo processo di nobilitazione. L'opera di Michael Mann è per chi scrive, oggi, l'esempio principe di come si possa dirigere in maniera impeccabile un film d'azione d'intrattenimento ad alto budget, visivamente potente, che abbia qualcosa da dire e continua voglia di sperimentare. Ricordandoci immancabilmente ogni volta le potenzialità insite in un action movie costruito ad arte, mediante un uso sinergico e simbiotico di immagini e musica. Come abbiamo più volte avuto modo di argomentare sulla nostra rubrica, ad esempio parlando del cinema di Darren Aronofsky, Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson o Wes Anderson, nella maggior parte del cinema americano contemporaneo più interessante (una delle poche eccezioni è il maestro Clint Eastwood), la musica riveste un ruolo di primaria importanza, cercando costantemente un vivo dialogo con movimenti della macchina da presa o interni all'inquadratura, fino a diventare in taluni casi un forte e strutturato veicolo di senso. Si pensi a questo proposito al vigoroso incipit di Miami Vice, ambientato all'interno di una discoteca e che si alimenta di uno sfondo sonoro ad altissimo volume che ben si addice all'intenso ricorso a una molteplicità di inquadrature; oppure, nello stesso film, al sublime doppio finale, infine confluente in uno solo, in cui vengono presentati due differenti climax legati in diversi modi alle vicende sentimentali dei due protagonisti della pellicola. Ma si pensi ancora, tra i numerosi possibili esempi, ad alcune straordinarie sequenze di combattimento sul ring di Alì, o anche alla voce di Chris Cornell che accompagna l'apparizione quasi epifanica del coyote per le strade dell'alienante Los Angeles di Collateral.
Incontrastato maestro del film d'azione, Mann ha però dimostrato nel corso della sua carriera di poter essere anche autore eclettico. Oltre ad essersi cimentato con successo, ormai diciassette anni orsono, con la tradizione del cinema in costume dal respiro storico-epico (L'ultimo dei Mohicani), nell'ultima decade ha fatto vedere che, quando ha deciso di muoversi oltre quel perimetro dell'action movie che rappresenta il suo habitat naturale, i risultati sono comunque sempre stati eccellenti: Insider è un film di denuncia di innegabili solidità e spessore che si schiera apertamente contro le multinazionali del tabacco; Alì è invece uno dei più audaci, antiretorici e inventivi biopic della storia del cinema recente. Nemico Pubblico con ogni probabilità non verrà ricordato come uno dei suoi film più riusciti. Anzi, a nostro avviso è piuttosto chiaramente il suo film meno riuscito perlomeno dai tempi di Heat, deludendo nella misura in cui fallisce laddove le proprie precedenti opere sbancavano (intensità di fondo, prorompente forza estetico-sonoro-visiva, fine impianto drammaturgico). Eppure il ritorno di Mann alla regia di questi tempi è sempre, nonostante tutto, una gran bella notizia.

Articolo pubblicato nel numero 18 di Cinem'Art (Novembre/Dicembre 2009)

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