martedì 11 maggio 2010

Il curioso caso di Benjamin Button: se gli incubi incantano più dei sogni


Non ci sentiamo di ricorrere a mezzi termini o a una serie di giri di parole: l'ultimo, attesissimo, lavoro di David Fincher rappresenta un vero e proprio passo falso. Il curioso caso di Benjamin Button, pluricandidato agli Oscar 2009 con ben 13 nominations, è l'ambizioso racconto della vita di Benjamin Button (Brad Pitt), appunto, nato vecchio il giorno in cui ebbero fine le ostilità della Grande Guerra. La madre muore mettendolo alla luce e il padre, una volta resosi conto delle sue condizioni, decide di non tenerlo lasciandolo davanti ad un ospizio gestito da un uomo e da una donna di colore. Impietosita dal povero bimbo, solo e abbandonato nella fredda notte dell' 11 novembre 1918, la donna decide di prendersene cura. Un medico, vedendo questo neonato rugoso con la pelle, il tessuto muscolare e gli organi di un uomo con alle spalle un'intera esistenza, afferma che non c'è nulla da fare (“il corpo lo abbandona prima che cominci a vivere”). Ma piano piano, con il passare degli anni, le persone che vivono intorno a Benjamin si rendono conto che non è affatto destinato ad una morte prematura, bensì a vivere una vita esattamente al contrario rispetto a quella di tutti gli altri: giorno dopo giorno invece di invecchiare ringiovanisce, il tempo che passa cancella segni e rughe dal suo corpo piuttosto che depositarne. Durante il proprio eccentrico viaggio tra le cose, Benjamin incontrerà una serie di persone più o meno stravaganti, parteciperà a suo modo alla seconda guerra mondiale, si invaghirà di diverse donne e in particolare si innamorerà della bella Daisy Fuller (Cate Blanchett), che conosce da piccolo nella casa-ospizio e con cui si incontrerà più avanti in diverse occasioni, stringendo con lei una relazione molto intensa all'età di circa quarant'anni. Nel momento in cui, cioè, i due riusciranno a ritrovarsi a metà strada come fossero una normale coppia di innamorati.

La dimensione onirica e sognante domina chiaramente incontrastata nel film e Fincher ce lo sottolinea facendo un uso reiterato della dissolvenza incrociata. Nei suoi lavori precedenti il contesto di riferimento era sempre stato invece quello di una realtà nera, prepotentemente corposa e presente: l'universo metropolitano alienante, violento, invivibile e perennemente piovoso di Seven (1995), o la condizione di totale spaesamento, in Fight Club (1999), di diversi trentenni americani, insoddisfatti della propria vita apatica e monotona, che si riuniscono per combattere tra di loro a mani nude nel disperato tentativo di provare qualcosa, di sentirsi vivi all'interno di un universo consumistico soffocante e reprimente. Per non parlare di quel claustrofobico e orrorifico Kammerspiel – intendendo con il termine tedesco un qualsiasi racconto girato esclusivamente, o molto prevalentemente, in interni  che è Alien 3 (1992), l'esordio cinematografico di un Fincher trentenne con alle spalle già un'invidiabile carriera nel videoclip e nella pubblicità.

In Button invece gli esterni prevalgono decisamente sugli interni, l'oniricità e la fantasia su una cupezza, un nichilismo e un disincanto pressoché titanici. Il problema di questo film comunque non è certo l'essere completamente (o quasi) estraneo alla poetica che negli anni il suo cineasta aveva con coerenza tratteggiato; anzi, l'eclettismo e la capacità di mettersi in gioco rischiando tutto pur di cercare nuove vie ed inediti approcci dovrebbe essere considerato un pregio e non certo un limite per un autore. Purché però il tocco dell'autore in questione rimanga in qualche modo riconoscibile (come accadeva ad esempio in Zodiac, 2007): Button invece, anche sotto l'aspetto stilistico, sembra il film di qualcun altro e, ancor peggio, si rivela una pellicola mal riuscita nel suo complesso, sostanzialmente fredda, patinata e priva di sussulti. Deficitaria proprio in quelle che erano solitamente le carte vincenti di Fincher: ritmo incalzante, movimenti avvolgenti e trascinanti della macchina da presa atti a portare lo spettatore nel cuore dell'azione (valga per tutti il solo esempio dell'impeccabile sequenza finale di Seven, una sorta di perfetta bomba ad orologeria). Il regista appare in questo contesto davvero spaesato, come un pesce fuor d'acqua, non riuscendo mai a dare forza alle proprie immagini, risultando decisamente poco ispirato nella costruzione della messa in scena e non essendo in grado di creare neanche una sequenza di particolare interesse. La mancanza di incisività della regia rispecchia perfettamente quella della pellicola: e il film, pur scorrendo piuttosto velocemente e senza particolari intoppi, nonostante la durata di due ore e quaranta minuti circa, affronta temi elevati quali la vita, la morte e l'amore con un approccio eccessivamente semplicistico e platealmente didascalico. A tal proposito è particolarmente esemplare l'epilogo, dal carattere decisamente artificioso, sulla necessità di vedere il mondo, di conoscere le culture differenti e di ascoltare le voci più distanti dalle proprie per arricchirsi e cercare di vivere la vita nella sua pienezza. Oppure, si pensi alla sequenza in cui vengono ripercorse in modo rigido e schematico la serie di circostanze che porta all'incidente di cui è protagonista Daisy Fuller, nel frattempo divenuta una ballerina di caratura internazionale, il cui cognome è un chiaro omaggio a Loïe Fuller, una delle più grandi esponenti della balletto moderno americano. Considerando questi ultimi aspetti, è doveroso soffermarsi sulla decisiva complicità del pur esperto e valido sceneggiatore Eric Roth (Forrest Gump, Munich, Alì, Insider), il quale indugia su un'edulcorata e zuccherosa visione del mondo (la frase “non sai mai cosa c'è in serbo per te” riecheggia più volte in modo piuttosto irritante, suonando falsa) e su una serie di metafore troppo scontate e meccanicamente reiterate per emozionare davvero (si pensi al colibrì e al suo velocissimo battito di ali come simbolo della vita e delle sue infinite possibilità). I migliori film di Fincher – Zodiac, Fight Club e Seven – partivano sempre da script buoni e Button soffre moltissimo la scontatezza e la poca profondità della sceneggiatura di Roth, trovando invece in un cast di ottimo livello un notevole, forse l'unico, punto di forza.

Restano da capire le motivazioni della partecipazione di Fincher a questo progetto. Se l'obiettivo era quello di cambiare registro e lasciare il segno anche in una favola alla Forrest Gump, ci sembra che il tentativo sia clamorosamente fallito: Button infatti non ha neanche lontanamente la forza espressiva, l'ispirazione, la vitalità, la genuina ironia della pellicola di Zemeckis. Se quello del cineasta di Fight Club voleva essere invece un tentativo di dimostrare la propria capacità di limitare il proprio affascinante virtuosismo, in passato più di qualche volta eccessivo e slegato da una solida giustificazione sul piano diegetico, bisogna dire che non se ne sentiva il bisogno dopo la grande prova di maturità stilistica mostrata in Zodiac. A meno che il suo ultimo film non sia stato il necessario debito da saldare per il credito ricevuto poco meno di due anni fa dalla Paramount, che accettò di finanziare con ben 65 milioni di dollari un film totalmente antispettacolare che andava in una direzione opposta a quella di Seven. E che rappresenta tuttora il momento più alto della carriera di Fincher.

Pubblicato nel numero 12 di Cinem'Art (Marzo 2009)

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