martedì 20 luglio 2010

Il cinema secondo Tarantino


L'inarrestabile scalata a Hollywood di Quentin Jerome Tarantino (nato a Knoxville, Tennessee, il 27 marzo 1963) inizia con il lavoro di commesso in una videoteca californiana di Manhattan Beach, il Video Archives. Il negozio (da molti anni non più in attività) era piuttosto famoso a Los Angeles, soprattutto tra gli addetti ai lavori, e non era infrequente che registi, produttori o uomini di cinema in generale passassero di lì, anche solo per una chiacchierata. È in questo modo che Tarantino comincia a farsi conoscere, facendo così girare le sue sceneggiature e il proprio nome nell'ambiente hollywoodiano. Dopo essere riuscito a vendere le sue prime sceneggiature alla fine degli anni Ottanta (da cui nasceranno nel 1993 Una vita al massimo di Tony Scott e nel 1995 Natural Born Killers di Oliver Stone), entra in contatto con l'emergente produttore Lawrence Bender. L'incontro è il preludio de Le Iene (1992) e il sodalizio tra i due amici ad oggi non si è ancora interrotto. Con Pulp Fiction (1994) inizia invece la storica collaborazione con la Miramax dei fratelli Weinstein. Il film, vincitore inaspettato del festival di Cannes nell'anno in cui a presiedere la giuria c'è Clint Eastwood, consacra definitivamente Tarantino facendolo divenire, con alle spalle due sole opere, un regista di culto mondiale. Ed è veramente sorprendente pensare a come le immagini in movimento plasmate da questo onnivoro e appassionato cineasta cinefilo siano entrate così rapidamente nell'immaginario cinematografico.
Fin da adolescente, Tarantino è cresciuto a forza di pane e celluloide. Come testimoniano gli amici di infanzia o il secondo compagno della madre, con il quale si consumava il rito dell'intero venerdì al cinema (spettacolo delle tre, delle sei, delle nove e, a volte, persino di mezzanotte!), il giovane Tarantino viveva nutrendosi e guardando film su film, sette giorni su sette. Il fatto di crescere, e di formarsi una notevole e trasversale cultura cinematografica, guardando migliaia di pellicole al cinema o a casa in videocassetta, è una delle caratteristiche principali che contraddistingue molti esponenti della new wave statunitense degli anni novanta. Se infatti la generazione dei cineasti impostisi negli anni settanta si era formata accademicamente nelle università di cinema (si pensi ai vari Coppola, Scorsese e Lucas), registi come ad esempio Tarantino, Paul Thomas Anderson, David Fincher e Spike Jonze, per quanto possano essere diverse le loro rispettive poetiche ed influenze, sono tutti accomunati dal non avere una formazione universitaria. Questo aspetto ci sembra importante per cogliere quell'evidente e peculiare gusto citazionista che emerge chiaramente nei film di alcuni di loro, e in particolar modo proprio in quelli di Tarantino. Un gusto citazionista che inevitabilmente è ludico e scanzonato, anche per certi versi ingenuo e fanciullesco, nella misura in cui mette prepotentemente in gioco quella passione cinefila che è poi l'autentica passione di una vita.
Ciò che colpisce prima di ogni altra cosa nei lavori di Quentin Tarantino, è la capacità di rielaborare con un innegabile e riconoscibilissimo tocco personale codici, stili, luoghi comuni di un certo cinema che ama e con cui è cresciuto, per poi magari ribaltarli parodicamente. Il tarantino touch, per così dire, si basa fondamentalmente sulla riproposizione fortemente personale del cinema statunitense di serie B e serie Z (film di kung fu, film d'explotation ad alto tasso di sesso e violenza), con citazioni ed accenni più o meno evidenti anche al grande cinema d'autore (Godard, Leone e Ford tra gli altri). Ma quali sono, andando al concreto, i fattori essenziali che permettono di riconoscere immediatamente la mano di Tarantino? Ci sembra che siano essenzilamente due.

Lo stile di scrittura

Il ricorso a dialoghi brillanti, frizzanti, scritti in modo finissimo e il più delle volte legati a doppio filo alla cultura popolare americana, è indubbiamente uno dei cavalli di battaglia del cinema tarantiniano. Non è possibile evitare di menzionare le esilaranti dissertazioni di Pulp Fiction, con protagonisti John Travolta e Samuel L. Jackson, sul senso del fare un massaggio ai piedi ad una donna; oppure la discussione tra i gangster de Le Iene, che in modo significativo fa da incipit al film, sul significato latente della celebre hit di Madonna Like A Virgin. O ancora, nell'improprio tentativo di prendere solo tre esempi all'interno di una filmografia che è colma di momenti all'altezza di quelli citati, il formidabile monologo di David Carradine sulle diverse filosofie alla base dei fumetti di Superman e Spiderman.


Tutto il cinema di Tarantino deve indubitabilmente molta della sua forza all'arguzia dei dialoghi di cui è composto e di cui, verrebbe da dire non a sproposito, si alimenta. È vero che in Kill Bill vol.1 (2003) è nettamente l'azione a farla da padrona, ma non è certo un mistero che secondo le intenzioni del regista la pellicola sarebbe dovuta uscire in una versione unica di quattro ore, comprensiva anche del molto più parlato Kill Bill vol.2 (2004).
A ben pensarci, il cineasta statunitense è innanzitutto un grandissimo e raffinato sceneggiatore, in grado come pochi altri nel panorama mondiale contemporaneo di catturare lo spettatore, fino quasi a sedurlo, mediante la propria peculiare abilità di plasmare scambi dialogici sempre intriganti. Riuscendo al contempo a raggiungere vette di comicità notevoli, spesso e volentieri tendenti al no sense. Come scrive in modo perspicace Christian Viviani sul Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi): “Osceno, vivace, immaginifico, logorroico, il dialogo di Tarantino si distacca ben presto dalla volgarità per raggiungere un ritmo sincopato quasi musicale, allontanandolo dal realismo pur facendogli mantenere naturalezza e improvvisazione”. Per non parlare della capacità, particolarmente evidente nei primi due lavori della sua filmografia (Le Iene e Pulp Fiction), di costruire perfette stutture narrative “ad incastro” in cui dominano frammentazione temporale ed ellissi, e dove addirittura in determinate occasioni si arriva a presentare delle stesse vicende diegetiche da vari punti di vista. Si pensi, a tal proposito, alla sequenza dello scambio delle buste nel centro commerciale di Jackie Brown (1997).

L'utilizzo della musica

La musica, utilizzata spesso e volentieri in aperto contrasto con le immagini, riveste in diverse occasioni un'importanza non secondaria anche a livello narativo. Se questo tipo di concezione contrappuntistica del rapporto tra colonna sonora e immagini evidentemente non nasce con il regista di Knoxville, l'utilizzo della rassicurante e gaia musica pop americana degli anni sessanta e settanta ad accompagnare sequenze di violenza, più o meno esplicita, è stata una vera e propria novità per gli anni novanta. Così come non si era abituati, più in generale, ad una messa in scena della violenza spudoratamente leggera, ironico-parodica, farsesca, a tratti evidentemente rivelatrice di un complessivo sfondo amaro nel quale si muovono costantemente tutti i personaggi (vedi soprattutto Le Iene, Pulp Fiction e Jackie Brown). Più esplicitamente ludica e meno problematica, da vero b-movie scanzonato, apparrà la caratterizzazione della violenza messa in scena nei successivi Kill Bill vol. 1 e 2, ma soprattutto in Grindhouse – A prova di morte (2007).


Per questi due elementi principalmente, il personalissimo e inconfondibile stile di scrittura e il particolare utilizzo della musica, l'opera del cineasta nordamericano è stata certamente una delle più influenti nell'ambito cinematografico internazionale degli ultimi quindici anni. In molti hanno provato a riproporre il suo stile ma immancabilmente con scarso successo, non potendo fare affidamento su quella straordinaria padronanza del mezzo filmico propria dell'uomo di cinema Tarantino (si pensi, fra i tanti, all'inglese Guy Ritchie di Lock&Stock, Snatch e RocknRolla). Proprio a proposito del Tarantino uomo di cinema, come anch'egli spesso si definisce, in un articolo del New York Times dello scorso 18 maggio Kristin Hohenadel riporta una breve dichiarazione del regista del Tennessee: “You've got to make a movie about something, and I'm a film guy, so I think in terms of genres”.
L'autore di Pulp Fiction, dunque, afferma esplicitamente di pensare sempre prima di tutto (forse esclusivamente?) in termini di genere, giocando così sulla contaminazione e facendo costantemente nei propri film molteplici riferimenti alla storia del cinema, in particolare quello “sommerso” visto nelle salette grindhouse (i cinema di quart'ordine che proiettavano, soprattutto negli anni settanta, film a budget praticamente inesistente). Questa dichiarazione può rivelarsi un utile spunto per riflettere sull'effettivo spessore contenutistico delle pellicole tarantiniane. Per chi scrive, coloro che cercano nei film di Tarantino qualcosa che vada oltre la bellezza della forma e la potente rielaborazione personale di un certo cinema, probabilmente non hanno capito bene con che regista hanno a che fare. Eppure, ogni suo film è una vera e propria gioia per gli occhi, essendo Tarantino, oltre quanto già detto, anche un ottimo cineasta in grado di creare immagini sempre suggestive e virtuosismi di raro fascino. Notevole è poi la sua capacità di dinamizzare lo spazio scenico: si pensi alle ampie parti de Le Iene ambientate nello squallido deposito dove i criminali devono ritrovarsi dopo il colpo, o a Grindhouse – A prova di morte, in cui dominano in entrambi gli espisodi lunghe sequenze di dialoghi in spazi rigorosamente chiusi e ristretti (interni di macchine, di bar o di ristoranti ordinari).


All'interno di molti dei discorsi fatti sin qui rientra Inglourious Basterds (2009, il doppio refuso del titolo è misteriosamente voluto dal regista). A partire proprio da quello che abbiamo riconosciuto come il cuore del cinema tarantiniano: il complesso tessuto di omaggi citazionistici concernenti il cinema con cui è cresciuto. Nonostante quanto detto dalla stampa nei mesi di lavorazione, il film non è un remake di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, ma ne è solo liberamente e parzialmente ispirato. Presentata con buon successo di critica all'ultimo festival di Cannes, la pellicola mette in scena le improbabili gesta di una banda di soldati ebrei americani che, al fine di uccidere tutti i prinicipali gerarchi nazisti, sbarcano nella Francia occupata da Hitler.
Pieno zeppo di citazioni (Leone e gli spaghetti-western, ma anche Lubitsch, Ford e il western classico d'autore in generale), Inglourious Basterds terminerà – lo scriviamo dal momento che lo hanno già ampiamente riportato tutti i quotidiani e i telegiornali nazionali – con lo sterminio di molte delle principali personalità del Terzo Reich (Hitler, Himmler, Goering, Goebbels). E questo avverrà all'interno di una sala cinematografica in cui si sta proiettando un film che rappresenta l'apoteosi della propaganda nazista (girato nella realtà da Eli Roth). Tarantino dunque, da ingenuo e appassionato cinefilo doc, arriva con la sua ultima fatica a confrontarsi con il potere del cinema, capace persino di sovvertire la lugubre Storia attraverso la propria dirompente forza immaginifica. Che è per definizione illusoria, giocandosi interamente ed inevitabilmente sul piano della finzione, soprattutto se messa apertamente a confronto con la granitica e irremovibile materialità delle cose.

Articolo pubblicato nel numero 16 di Cinem'Art (Luglio/Agosto 2009)

giovedì 15 luglio 2010

L'estetica nel cinema di Jonathan Demme


Dopo aver lavorato per un breve periodo come pubblicitario per la United Artist, Jonathan Demme (nato a Baldwin, New York, nel 1944) incontra il regista e produttore indipendente Roger Corman, il quale ne intuisce le enormi potenzialità e gli offre la possibilità di lavorare prima come sceneggiatore, e in seguito anche come regista (Femmine folli, 1975; Crazy Mama, 1975; Fighting Mad, 1976), per la sua New World Pictures, la mitica casa di produzione di film di serie B a basso costo che negli anni fa esordire, tra gli altri, registi del calibro di Coppola, Bogdanovich e Dante.
Autore eclettico (ha affrontato ogni tipo di genere e da anni si divide generosamente tra fiction, documentari dalla forte matrice liberal o concernenti grandi musicisti) e formalmente molto rigoroso, Demme è considerato da gran parte della critica come uno dei cineasti americani più importanti degli ultimi trent’anni e rappresenta un solido e indiscusso punto di riferimento, consapevole o meno che sia, per tutti quei grandi talenti affermatisi nel panorama cinematografico statunitense a partire dagli anni Novanta (i due Anderson, Todd Solondz, Todd Haynes, Sofia Coppola). Il suo erede più diretto è sicuramente Paul Thomas Anderson, per diversi motivi il più interessante tra i giovani filmmaker americani in circolazione, che ha più volte apertamente ammesso quanto il suo stile sia stato influenzato in particolar modo dal sopraffino cineasta newyorchese. Quando si ha a che fare con Jonathan Demme, prima di ogni altra cosa è doveroso fare riferimento alle sue straordinarie doti di metteur en scene. Egli è infatti innanzitutto un fuoriclasse della macchina da presa, un esteta della settima arte: al di là dei film nel loro complesso, la maggior parte dei quali davvero notevoli (si veda in particolare la sua produzione a partire dagli anni Ottanta), la grandezza di Demme sta in primis nelle sue eccellenti capacità nel muovere la cinepresa e nel costruire sapientemente la messa in scena. Ci sembra che nei suoi lavori, soprattutto per gli appassionati o gli studiosi di cinema, sia quasi più importante il modo in cui racconta piuttosto che quello che racconta. Influenzato certamente dalla Nouvelle Vague e dal New American Cinema, ma anche a nostro avviso da pietre miliari come Renoir e Ophüls, la parola chiave nella regia di Demme è 'dinamicità': la macchina da presa è in continuo movimento, un movimento sinuoso e fluido attraverso il quale ora gira intorno ai personaggi, ora li accompagna quasi tenendoli per mano, fluttuando in modo inebriante alla ricerca di una situazione, uno sguardo, un dettaglio (da questo punto di vista particolarmente emblematica è la messa in scena di Beloved, 1998). I piani fissi ovviamente non mancano, ma sono ridotti al minimo: anche quando si tratta di inquadrare un personaggio o un volto, se si presta attenzione ci si accorgerà che in diverse occasioni la cinepresa si avvicina lentamente, quasi impercettibilmente, al soggetto da filmare. Questo stile inconfondibile viene accompagnato, nei momenti di maggiore concitazione o tensione, da rapide panoramiche a schiaffo e improvvisi zoom in avanti dall’evidente funzione enfatica (vedi ad esempio Il silenzio degli innocenti, 1991, per il quale, oltre ai famosi 5 Oscar, ha meritatamente vinto l’Orso d’Argento a Berlino): l’obiettivo è quello di coinvolgere lo spettatore al massimo grado, riuscendo al contempo con grande maestria a rendere ogni singola sequenza cinematograficamente interessante, stimolante ed esteticamente assai gratificante.

È necessario tenere presente, inoltre, che Demme è un cineasta estremamente attento alle esigenze narrative legate alla storia che si propone di mettere in scena, dalle quali inevitabilmente scaturiscono le sue scelte registiche, mai dettate da un personale esibizionismo. Un esempio paradigmatico è Qualcosa di travolgente (1986), al cui stesso interno vigono due diversi regimi stilistici: se nella prima parte si registra una delle regie più asciutte e misurate della sua carriera, nella parte finale, in cui la bizzarra e del tutto anticonvenzionale commedia sentimentale vira inaspettatamente verso il thriller, la regia è composta da un gran numero di piani di ripresa e si avvale di un montaggio piuttosto veloce. Un elemento stilistico di primo piano e ricorrente nell’intera filmografia di Jonathan Demme è, poi, l’utilizzo della soggettiva abbinata allo sguardo in macchina del soggetto guardato, stratagemma estetico molto suggestivo mediante il quale il regista è in grado di rendere con notevole forza espressiva scambi dialogici, in genere tra i due personaggi principali, di particolare importanza o pathos (si veda a livello esemplificativo un film come Philadelphia, 1993, o lo stesso Il silenzio degli innocenti); altro espediente formale, meno frequente ma costante in tutto il suo cinema, è il posizionamento della cinepresa in maniera obliqua per sottolineare momenti di difficoltà di un personaggio (ancora una volta Philadelphia), o per preavvisare lo spettatore, talvolta prendendosi anche gioco di lui, che sta per avvenire un evento importante e inaspettato (Una vedova allegra … ma non troppo, 1988).

Molto vicino alla causa dell’indipendenza femminile (diversi suoi film hanno come protagonista delle donne forti e diversamente tenaci) e a quella della comunità nera, il cinema di Demme non è poi certo privo di interesse a livello tematico: come scrive Mancino sul Dizionario dei registi del cinema mondiale edito da Einaudi, il cineasta americano con la fiction, e a nostro avviso ancor più incisivamente con i documentari (Swimming to Cambodia, 1987; Haiti Dreams of Democracy, 1988; Mio cugino, il reverendo Bobby, 1992; The Agronomist, 2004), costantemente “affronta tematiche razziali e interculturali, occupandosi in particolare dei complessi meccanismi della socializzazione e delle comunità di emarginati, disadattati o pseudo-integrati, negli Stati Uniti come in Africa, nel Sud-est asiatico come nell’America Latina”; e passando per i generi più svariati — apportando sempre il proprio tocco originale e spesso ironico, orientato a demitizzare e a contaminare — indaga “sulla difficile realizzazione d’un sogno di democrazia, pari opportunità e mutua solidarietà tra diverse componenti religiose, etniche e sessuali”.

Abituato ad omaggiare apertamente i registi che lo hanno fortemente influenzato o che considera essenziali (Hitchcock con Il Segno degli Hannah, 1979, la Nouvelle Vague tutta e Truffaut in particolare con il giocoso, e ingiustamente vituperato dalla maggior parte dei critici, divertissement d’autore The Truth About Charlie, 2002), il suo ultimo lavoro Rachel Getting Married è una dichiarazione d’amore minimalista e di grande impatto emotivo al cinema e alla poetica di John Cassavetes, con evidenti riferimenti a Ombre, l’esordio del 1959. Facendo costantemente ricorso alla macchina da presa a mano, che si muove incessantemente andando a cercare il corpo e il volto degli attori, e avvalendosi delle consuete affascinanti panoramiche a schiaffo, Demme mostra con spontaneità ed energia trascinanti la storia della giovane Kim (una convincente Anna Hathaway), ex modella con problemi di tossicodipendenza che torna a casa dopo un lungo periodo di riabilitazione in occasione del matrimonio della sorella Rachel. Queste caratteristiche stilistiche si sposano perfettamente con la natura della sceneggiatura (scritta da Jenny Lumet, figlia del più noto Sidney), che si alimenta di dialoghi quanto mai credibili e vicini alla quotidianità, delineando i rapporti (tesissimi) tra i membri della famiglia di Kim con un tatto, un’autenticità ed un’essenzialità fuori dal comune. Il film si presenta esteticamente come una sorta di ibrido tra fiction e non-fiction (si pensi alle numerose riprese “anti-narrative” dedicate ai balli e alla musica della festa matrimoniale), un punto di incontro tra le due anime della poetica demmiana: finzione e documentario, linguaggi che negli ultimi tempi al cinema sembrano essere quanto mai contaminati.

Articolo pubblicato nel numero 8 di Cinem’Art (Novembre 2009)

venerdì 2 luglio 2010

Clint Eastwood: l'ultimo dei "classici", tra osservanza e rottura delle regole


Clint Eastwood (San Francisco, 1930) è uno dei più importanti cineasti viventi. Notevole punto di forza nell'arco della sua lunghissima carriera cinematografica, cominciata come attore e proseguita a partire dagli anni Settanta ancor più gloriosamente come regista (non perdendo mai la voglia di dirigersi e mettersi così doppiamente in gioco), è il suo essere stato sempre poco incline a mode e tendenze, fedele a un'idea di cinema vicina a quella di grandi classici quali Ford, Hawks o Anthony Mann. Ha seguito un affascinantissimo e del tutto personale percorso di crescita artistico-registico, passando quasi come un oggetto estraneo e anacronistico attraverso la New Hollywood e tutti gli sviluppi successivi dell'industria cinematografica a stelle e strisce. Non a caso, è stato da molti definito come “l'ultimo dei classici”: quando in America arrivavano gli echi della Nouvelle Vague, il buon Clint dirigeva film di genere che tutto sommato rispettavano i canoni del cinema classico tradizionale (da Brivido nella notte del 1971 a Il texano dagli occhi di ghiaccio del 1976); quando, tra gli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, il cinema hollywoodiano si orientava verso un tripudio di effetti speciali e la forma-tipo del blockbuster, ha partorito opere radicalmente démodé come Bronco Billy (1980), Honkytonk Man (1982), Il cavaliere pallido (1985), Bird (1988), Cacciatore bianco, cuore nero (1990), Gli spietati (1992). Spirito libero, ingiustamente riconosciuto dalla critica come un grandissimo solo in seguito alla metà degli anni ottanta, da Mystic River (2003) si è stabilizzato su standard elevatissimi, non sbagliando mai un film, come gli era successo in passato con gli scialbi Firefox (1982) e La recluta (1991).

Una delle peculiarità dell'Eastwood regista, sta nella capacità straordinaria di delineare storie solide che appassionano e catturano dal primo all'ultimo minuto, dando in ogni momento l'impressione di avere tutto il materiale diegetico ben sotto controllo. Questa sua indiscussa abilità è già visibile nell'interessante esordio dietro la macchina da presa: in Brivido nella notte, che si alimenta di una regia di stampo classico ma con diverse “aperture” (sequenza musicale di qualche minuto, come tributo al jazz, che ha molto marginalmente a che fare con la narrazione, uso della macchina a mano piuttosto marcato in determinati frangenti), lo spettatore si identifica fin da subito con il disc-jockey da lui stesso interpretato, la cui vita viene sconvolta da un'invasiva e disturbata ammiratrice. A tutto ciò, ovviamente, si lega a doppio filo la sua nota concezione dello stile e della regia: vale a dire il non essere legato ad una particolare pratica stilistica, in nome delle mutevoli esigenze narrative. Quando si incontra il cinema di un grande regista, si finisce praticamente sempre nell'imbattersi in questo tipo di discorso. Tale fondamentale tratto formale generalmente porta con sé, oltre alla compresenza di diverse modalità di ripresa all'interno di una stessa pellicola, anche l'interesse per la contaminazione dei generi — altro topos che accomuna tutti i cineasti di un certo rilievo. Il cinema di Eastwood è pieno di esempi del genere: la macchina a mano, cui si faceva riferimento poc'anzi in relazione agli “squarci” eastwoodiani all'interno di una struttura tradizionalmente classica, utilizzata in momenti particolarmente concitati viene ad esempio diverse volte abbinata ad atmosfere dark che rimandano all'immaginario horror (lo stesso Brivido nella notte, ma anche Lo straniero senza nome, 1973, e persino l'ultimo Changeling, 2008).

Insomma, un cineasta che sia degno di questo nome, proprio come ogni artista che si rispetti, è necessario che abbia nell'eclettismo una componente fondamentale della propria personalità artistica. Ed Eastwood da questo punto di vista certo non fa eccezione. Continuando brevemente il complessivo discorso stilistico-estetico, val la pena riferire sinteticamente della passione del regista ormai settantottenne per le soggettive, sempre particolarmente evocative, e per le semi-soggettive, inquadrature in cui la cinepresa è posizionata alle spalle o appena di fianco al personaggio che guarda. La semi-soggettiva sarà sempre presente in tutto il cinema eastwoodiano, pur essendo utilizzata in modo veramente sistematico solo nel trittico western che anticipa il capolavoro Gli Spietati (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio e Il cavaliere pallido).
La figura stilistica della soggettiva, invece, ci porta a parlare del dittico del 2006 costituito da Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, incentrato sulla cruenta battaglia consumatasi verso la fine del secondo conflitto mondiale nella piccola isola di Iwo Jima. Queste due pellicole, allo stesso tempo complementari e totalmente autonome (la visione di una non richiede necessariamente quella dell'altra), costituiscono insieme un'esperienza cinematografica fuori dal comune: in Flags of Our Fathers viene rappresentata la guerra dal punto di vista dei marines americani, in Lettere da Iwo Jima lo sguardo privilegiato è quello dei soldati nipponici. Nessun altro, perlomeno nell'ambito del cinema bellico statunitense, aveva mai fatto una cosa di questo tipo. Come scrive Alberto Pezzotta nel Castoro dedicato ad Eastwood, infatti, anche se già vi erano stati film che avevano come protagonisti soldati nazisti (I giovani leoni di Dmytryk del 1959, La croce di ferro di Peckinpah del 1977) o mettevano sullo stesso piano un nemico rispetto ad un americano (Duello nell'Atlantico di Dick Powell del 1957 o Duello nel Pacifico di Boorman del 1968), Lettere da Iwo Jima va ben oltre, essendo un “letterale controcampo di Flags of Our Fathersche “mette in scena l'americano come nemico, rappresentandolo dall'esterno. (...) E ciò è tanto più audace in quanto alla differenza di fronte si aggiunge quella di cultura e di lingua”
Il sincero sforzo, quasi da antropologo, di comprendere una cultura altra rispetto a quella d'appartenenza, per poi mettere in luce con forza ed un variabile grado di esplicitazione quell'indissolubile legame che ci unisce tutti in quanto esseri umani, fa forse di Lettere da Iwo Jima il lavoro concettualmente più significativo dell'intera opera eastwoodiana. Questo legame ci sembra sia sottolineato dal punto di vista stilistico, in entrambi i film, attraverso l'utilizzo di una soggettiva che è molto spesso legata a visioni di morte (in diversi casi l'oggetto dello sguardo in un'inquadratura soggettiva sono brandelli di corpo senza vita), come a sottolineare che l'identificazione dell'uomo di qualsivoglia razza o credo con la guerra non può che passare attraverso il lutto. Sia Flags of of Our Fathers che Lettere da Iwo Jima sono però anche, come il cinema di Eastwood tutto, un'amara riflessione sulla solitudine dei singoli individui, lasciati in balia di se stessi e per nulla tutelati dalle autorità che detengono il potere e che dovrebbero, almeno sulla carta, garantire protezione e giustizia.

Questo tema si riconferma in modo evidente e con particolare forza espressiva in Changeling: la storia della strenua lotta di una madre che, nel tentativo di riabbracciare il proprio figlio rapito, si imbatte suo malgrado nella dilagante corruzione dell'intero dipartimento di polizia di Los Angeles, colpisce al cuore ed è sviluppata con la ormai celebre sapienza narrativa del regista californiano. Lo spettatore prova sulla propria pelle l'angoscia della tenace protagonista e la pellicola si rivela un dramma con insospettabili sfumature horror, che sono poi quelle niente affatto astratte della follia umana. Una breve sequenza è davvero molto interessante: la sorpresa del bimbo sostituito (da qui il titolo originale) viene anticipato di qualche secondo da un passaggio di montaggio deciso e poco fluido, quasi ad avvertire subliminalmente lo spettatore che a breve assisteremo a qualcosa che non quadra. Un altro dei piccoli “squarci” all'interno di quello stile asciutto e “classico” tipicamente eastwoodiano.

Articolo pubblicato nel numero 10 di Cinem'Art (Gennaio 2009)