mercoledì 17 novembre 2010

Gomorra, o l'affermazione della realtà delle mafie: per un superamento delle miopie mediatiche e delle mitizzazioni cinematografiche


Il 17 dicembre 2008, nell'Aula Magna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Roma Tre, si tenne un interessante incontro con Roberto Saviano all'interno del “Festival delle Culture. Il Sud d'Italia, il Sud del mondo, tra legalità e razzismo”, organizzato dai giovani studenti dell'Onda studentesca della facoltà. L’incontro fu un’occasione preziosa per riflettere sull'immagine che i diversi mezzi di comunicazione offrono del mondo mafioso. E su come questa cozzi profondamente con la realtà. Scrissi un articolo a riguardo per il numero di febbraio 2009 di Cinem’Art, che vi ripropongo in versione pressoché integrale in questa sede per omaggiare lo scrittore campano e l’importante trasmissione che sta andando in onda in queste settimane, Vieni via con me.

L'intervento.

Non si può certo nascondere che il clou, il surplus dell'intero "Festival delle Culture" sia stato rappresentato dalla presenza di Saviano, il quale, visibilmente emozionato, ha accettato con grande gioia l'invito degli studenti universitari, sottolineando appena presa la parola come fosse felice di trovarsi lì e di poter essere di fronte, una volta tanto, a così tanti giovani. Non bisogna dimenticare infatti che Saviano vive ormai sotto scorta da due anni, trasferendosi periodicamente da una caserma all'altra. Le uniche facce che vede con continuità, le sole persone con cui può parlare, confrontarsi e confidarsi quotidianamente sono i sette carabinieri che gli fanno da scorta.
Il lungo intervento dello scrittore – durato in totale quasi un'ora e dieci minuti – si può suddividere in quattro tronconi: una breve parte iniziale nella quale ha introdotto il mondo delle mafie, facendo riferimento ad una serie di dati particolarmente significativi; un lungo racconto di alcuni dei tanti morti provocati dalla camorra (quasi sempre ragazzi che non arrivano a 18 anni), corroborato da una serie di tragiche fotografie scattate da fotogiornalisti e cronisti; una parte più snella in cui ha mostrato come i giornali locali rappresentino, in modo deformato e palesemente connivente con la criminalità, l'assurda situazione che si consuma quotidianamente in Campania; una parte finale molto interessante sul rapporto tra cinema e mafia.
Cercheremo di rendere conto delle cose più stimolanti da lui dette, lasciando spesso e volentieri spazio alle sue stesse incisive parole. La cosa che forse più colpisce di Saviano dal vivo è infatti la sua abilità oratoria, la sua straordinaria capacità di coinvolgere e di appassionare chi ascolta con semplicità, senza tanti giri di parole o fronzoli, ma attraverso un'esposizione sintetica e densa, a tratti necessariamente dura e aggressiva. Tutte caratteristiche che d'altronde si ritrovano anche nel Saviano scrittore.


Le mafie (non) viste dai media. La realtà di una “guerra silenziosa”.

Il ventinovenne campano ha voluto fin dal principio specificare come quella messa in atto dalle mafie sia una vera e propria guerra, che ha fatto in Europa più morti del fondamentalismo islamico (“che invece sembra essere l'ossessione quotidiana della sicurezza di ogni paese”). Una “guerra silenziosa non perché non faccia rumore”, ma perché i media rimangono spesso in silenzio su queste vicende, e quando si pronunciano il commento è di solito sempre il medesimo: si ammazzano tra di loro. Questa per Saviano è la cosa più miope che possa essere detta, in quanto “non è affatto così. O meglio, spesso si ammazzano tra di loro. Ma chi sono loro e chi siamo noi lo decidono loro. Chiunque può divenire un loro se entra nelle dinamiche del loro scacchiere (dei media, n.d.r.). Come ad esempio è accaduto al giovane ragazzo Dario Scherillo, completamente incensurato, ucciso mentre andava in motocicletta solo perché aveva avuto la sventura, dirà poi la sentenza del tribunale, di vestirsi come la vittima designata. Quello che si è portati a pensare in questi casi purtroppo è che se uno vive a Scampia o a Casavatore proprio una persona per bene, in fondo, non potrà essere.
La verità, ha proseguito Saviano insistendo su questo tema considerato evidentemente nevralgico, è che l'Italia dei grandi giornali, e ancor di più quella delle grandi televisioni, spesso non si rende conto di questa guerra che avviene in una parte del Paese ed è ignorata dall'altra. Una guerra che “non è una parola scelta dalla fantasia o da un narratore che vuole impressionare”, ma è una “guerra reale” che da quando lo scrittore napoletano è nato ha fatto solo nel suo territorio più di 4000 morti. Non si può eludere un dato del genere, così come è necessario tenere presente che le tre principali organizzazioni criminali italiane (la Camorra, la 'Ndrangheta e la Mafia) fatturano, secondo la stessa procura nazionale antimafia, l'enorme cifra di 100 miliardi di euro l'anno, all'interno della quale sono contemplati esclusivamente gli affari circoscritti al territorio nazionale. Considerando che la Fiat nel mondo fattura 50 miliardi di euro annui, ci si può facilmente rendere conto di come l'economia mafiosa sia di gran lunga la più grande economia italiana. È chiaro quindi che, al di là del politico, “fosse anche onesto”, organizzazioni che dispongono di una tale somma di denaro sono in grado di condizionare la politica “indipendentemente dal rapporto di corruzione. Come la condizionano Microsoft, Bmw e General Motors”.  

Le mafie viste dal cinema. Il cinema visto dai mafiosi: l'influenza dei film sulla realtà dei clan


Prima del film di Matteo Garrone la settima arte non aveva mai rappresentato con tanto realismo il mondo delle mafie, cercando veramente di avvicinarsi quanto più possibile allo stato delle cose. Non a caso l'immagine di boss e sicari mafiosi è stata sempre legata, in particolar modo nel cinema americano, a figure carismatiche, perlomeno edulcorate, spesso affascinanti e mitizzate (si pensi a personaggi come Don Vito e Michael Corleone ne Il Padrino o al Tony Montana di Scarface). Naturalmente una visione del genere è quanto di più lontano dalla realtà ci possa essere (assai difficilmente un pluriomicida mafioso può essere considerato cool). Ed è proprio all'interno di questo cortocircuito tra la realtà e la sua rappresentazione che si innesta un meccanismo molto interessante e allo stesso tempo agghiacciante: generalmente non è il cinema ad imitare la realtà mafiosa, bensì il contrario. Se il cinema americano trasfigura la figura del mafioso fino a farne quasi un eroe, è chiaro allora che il mafioso in carne ed ossa proverà un certo gusto nell'imitare il suo alter ego di celluloide. Così il boss della cosca dei casalesi Walter Schiavone, fratello di Francesco Sandokan Schiavone, si fa costruire una villa identica a quella di Tony Montana/Al Pacino in Scarface; e il boss Cosimo Di Lauro, quando si presenta dinanzi alle telecamere poco dopo il suo arresto, si fa vedere vestito con un impermeabile nero e con i capelli tirati all'indietro come Brandon Lee ne Il Corvo. Questi due esempi ci fanno comprendere a fondo il perché i mafiosi, e in particolare i boss, siano così ossessionati dalla rappresentazione che un certo cinema fa del loro mondo: “È fondamentale mostrarsi come una star del cinema. Un boss si fa vedere pochissimo, vive sempre nascosto. Come può creare consenso intorno a sé? La leggenda di sé stesso come la crea? La crea uscendo nelle strade e mostrandosi come in Matrix, talvolta come in Pulp Fiction, come Michael Corleone. È così che un boss riesce a farsi identificare dalle nuove generazioni come un vero capo: il cinema viene utilizzato come una “grammatica per avere consenso”.
I film hanno poi influenzato la realtà delle mafie anche in modi meno sofisticati e ancor più folli: negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente gli spari in pieno volto, tant'è vero che le chiazze di sangue che vediamo nelle foto dei cronisti sono sempre in corrispondenza della faccia. Ormai tutti sparano come in Pulp Fiction, vale a dire con la canna della pistola piatta (“sparare con la canna dritta è da sfigati”). Così facendo si manca sistematicamente il bersaglio e si è dunque costretti ad avvicinarsi alla vittima per freddarla. Si capisce dunque quanto sia smisurata l'influenza del cinema sui mafiosi (e ovviamente sugli uomini in generale), riuscendo a spingerli persino ad un ben poco conveniente cambiamento di operatività militare.

            
Pubblicato nel numero 11 di Cinem'art (Febbraio 2009)

venerdì 12 novembre 2010

"Una vita tranquilla" di Claudio Cupellini


Negli ultimi anni sembra quasi che il migliore cinema italiano non possa fare a meno di Toni Servillo. L’attore campano da Le conseguenze dell’amore (2004) non sbaglia più un film e a partire dal 2007 ha inanellato una serie di performance di livello eccelso: La ragazza del lago (2007), Gomorra e Il divo (ambedue del 2008) non hanno fatto altro che palesare il talento e la forma di un interprete attualmente in stato di grazia. Nel convincente Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, presentato in concorso qui al festival di Roma, il nostro non è assolutamente da meno e si candida prepotentemente, fin d’ora, al Marc’Aurelio destinato alla migliore interpretazione maschile.

Rosario Russo è un immigrato italiano di mezza età che in Germania è riuscito a rifarsi una nuova vita. Insieme alla moglie tedesca Renate, con la quale ha un figlio piccolo, gestisce un fortunato hotel-ristorante nei pressi di Francoforte. Il cinquantenne campano non parla mai con nessuno del proprio passato e della famiglia di origine. La sua vita tranquilla (da qui il titolo del film) non è però destinata a rimanere tale ancora per molto. I torbidi trascorsi legati al Bel Paese che è riuscito a celare in tutti questi anni, infatti, cominciano inesorabilmente a riemergere quando il figlio italiano che non vede oramai da più di un decennio si presenta da lui in compagnia di un giovane uomo. Qual è il misterioso passato del protagonista? E per quale motivo il figlio Mario e il suo presunto collega in affari Edoardo lo hanno improvvisamente raggiunto? Come affermavano citando Shakespeare uno dei  personaggi e il narratore onnisciente di Magnolia, anche se si può chiudere con il passato, il passato non chiude con noi. Ed è proprio sul tema delle tragiche conseguenze della prorompente riemersione di un passato che si vuole nascondere ad ogni costo che in sostanza si concentra l’intero, potente, Una vita tranquilla.


Alla sua seconda prova dietro la macchina da presa dopo il piacevole Lezioni di cioccolato (2007), Cupellini cambia felicemente registro passando con successo dai toni della commedia leggera a sfondo sociale a quelli di un potente dramma intimista che rimanda per intensità e tematiche non solo al citato Shakespeare, ma anche alla più vasta tradizione classica della tragedia greca. Il cineasta dirige con ottima mano un’opera appassionante ed emozionante che forse ha il solo difetto di procede in modo un po’ troppo prevedibile sino al colpo di scena finale. In ogni caso ben sceneggiato dallo stesso Cupellini in collaborazione con Filippo Graviano e Guido Iuculano, il film è senza dubbio da considerarsi una delle migliori pellicole italiane di quest’anno.

Da segnalare, in coda, la magnifica sequenza della cena in cui Rosario riflette su come comportarsi nei confronti di Edoardo, nel frattempo divenuto una seria minaccia per la segretezza della sua reale identità. Composta da una suggestiva successione di primi piani, la scena è magistralmente giocata sull’abilità di Servillo di esprimersi attraverso il linguaggio non verbale ed insieme alla sequenza in soggettiva dell’incidente automobilistico di Let Me In è il momento cinematografico più significativo sinora visto al festival.

Articolo già pubblicato su close-up in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma