martedì 29 novembre 2011

"Animal Kingdom" di David Michôd


L’esordio alla regia dell’australiano David Michôd, vincitore alla penultima edizione del Sundance Film Festival del Gran premio della giuria riservato al miglior film straniero, è un gangster movie per diversi aspetti atipico che però non mantiene le buone promesse iniziali.
Dopo la morte della madre per overdose di eroina, il giovane Joshua Cody, spaesato e privo di qualsiasi altro punto di riferimento, decide di trasferirsi a casa della nonna materna Smurf (la convincente Jacki Weaver, che per il ruolo ha persino ottenuto una candidatura all’ultima edizione degli Oscar). Riallaccia così i rapporti con i suoi tre zii, mal visti dalla madre a causa della loro attività criminale. Pope, Craig e Darren, infatti, si guadagnano da vivere rapinando banche e negozi con il fidato compagno Baz. Se all’inizio Josh sembra trovare in loro l’affetto e la considerazione di cui necessita, la situazione precipita improvvisamente quando un gruppo di poliziotti, frustrato per le difficoltà incontrate nel collezionare le prove sufficienti ad incastrare i criminali, decide di iniziare a farsi giustizia da solo.
Da questo momento in poi, si scatena una feroce guerra tra i fratelli Cody e alcune frange deviate della polizia che finisce inevitabilmente per investire lo stesso Josh. Il ragazzo si troverà quindi ben presto a dover scegliere se schierarsi con la sua nuova famiglia o collaborare con l’integerrimo poliziotto Nathan Leckie, il quale in cambio gli promette protezione.


La storia di Animal Kingdom, come si può facilmente immaginare, non si segnala certo per il proprio carattere innovativo. L’aspetto di gran lunga più interessante dell’operazione portata avanti da Michôd, anche autore unico della sceneggiatura, risiede nella scelta vincente di rappresentare il mondo criminale di Melbourne e i suoi protagonisti evitando in ogni modo di mostrare nei loro confronti qualsivoglia tipo di fascinazione. L’opera prima però alla resa dei conti, pur potendo contare su un cast ben assortito di attori in prevalenza poco conosciuti (fatta eccezione per il ruolo del detective Leckie affidato a Guy Pearce), pecca grandemente sul piano della costruzione drammaturgica. La palese mancanza di un adeguato approfondimento psicologico dei personaggi, difatti, fa sì che lo spettatore non riesca mai ad appassionarsi fino in fondo alle vicende che scorrono sullo schermo. Di conseguenza il film, nonostante il felice finale ad effetto, risulta nel complesso sostanzialmente freddo e privo di sussulti. Accolto molto bene dalla critica italiana in occasione del festival di Roma 2010, oltre che dalla critica statunitense all'epoca della presentazione al Sundance.

Articolo originariamente pubblicato su close-up

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